Felicia Impastato è stata la prima donna in Italia a costituirsi parte civile in un processo di mafia. “Io voglio giustizia, non vendetta”, continuava a ripetere dopo che le avevano ridotto il figlio Peppino a brandelli. Ventiquattro anni per ottenerla, giustizia, dopo le bugie, le menzogne, le false accuse. La condanna all'ergastolo per il boss Tano Badalamenti arriva, infatti, solo nel 2002. 

“È il primo compleanno che vivo con la pace nel cuore” diceva il 24 maggio di quell’anno festeggiando i suoi ottantasei anni quella piccola grande donna, che come suo figlio seppe gridare nella piazza, lottare contro tutti, mafiosi, fascisti, uomini d’onore che non valgono neppure un soldo. 

Padri senza figli, lupi senza pietà.

Scriveva la giornalista de l’Unità Sandra Amurri in un articolo del 2004 sulla morte di Badalamenti: “È ancora viva nella memoria dei cronisti che hanno assistito al processo, quella piccola donna, che gli anni hanno reso curva, vestita di nero, mentre saliva sul pretorio accompagnata dagli avvocati per rendere la sua coraggiosa testimonianza. Don Tano la osservava, muto, in video conferenza, mentre se ne stava seduto in una stanza del carcere americano”. 

La magistrata Franca Imbergamo ricorderà così quel momento nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo: “Era un momento storico perché abbiamo assistito al riconoscimento da parte di una madre coraggio e alla capacità delle istituzioni di darle una risposta. Era commovente ed emozionante perché Felicia portava con sé il dolore più grande per una donna, quello di vedere ucciso un figlio. E poi c’era in collegamento dagli Stati Uniti, in video, Gaetano Badalamenti, che la osservava. Abbiamo scritto secondo me una pagina di storia, della storia della lotta alla mafia”.

Felicia moriva, finalmente serena per aver ottenuto giustizia, il 7 dicembre del 2004. 

“Nel manifesto che questa notte abbiamo appeso sui muri di Cinisi - affermava  Umberto Santino nel saluto laico al suo funerale - abbiamo scritto: Ciao Felicia, non mamma Felicia come sarebbe stato più ovvio. Perché in questi anni non sei stata soltanto moglie (di un mafioso che, che a un certo punto ha cercato di difendere il figlio dalle mani degli assassini) e madre (di un rivoluzionario), ma donna per te, matura dentro te stessa, forte di una tua autonomia, di un tuo personale carisma che rendeva il colloquio con te, o anche un semplice saluto, un’esperienza preziosa e irripetibile”.

“Solo 35 passi separano la cappella degli Impastato dove sono sepolti Peppino e da ieri anche la madre Felicia, da quella di Don Tano Badalamenti la cui foto è in mezzo a quella di altri parenti defunti - scriveva Repubblica il giorno seguente - Anche nella morte dunque, così come nella vita, quelle due famiglie - quella dell’antimafia rappresentata da Peppino, dalla madre e da suo fratello Giovanni e quella della mafia, rappresentata dal defunto padrino di Cinisi morto mesi fa in un carcere degli Stati Uniti - sono a pochi passi di distanza. E la bara di Felicia ieri è dovuta passare davanti alla cappella di don Tano: il boss verso cui lei, moglie di mafioso, in vita non aveva mai avuto «rispetto» e che anzi non aveva esitato a denunciare quale assassino del figlio Peppino. Fino all’ultimo, fino a quando ha in qualche modo ottenuto giustizia. Una giustizia lenta che però a Felicia è servita in tutti questi anni a tentare di svegliare dal torpore i suoi compaesani”. 

Dopo la morte di Peppino, infatti, Felicia apre la sua casa a quanti vogliono conoscere suo figlio.

“Perché mi piace parlarci - spiegava - perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa’. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise”. 

“La mafia - diceva con coraggio in un’intervista - non si combatte con la pistola ma con la cultura”.

Questo non è mio figlio.
Queste non sono le sue mani
questo non è il suo volto.
Questi brandelli di carne
non li ho fatti io.
Mio figlio era la voce
che gridava nella piazza
era il rasoio affilato
delle sue parole
era la rabbia
era l'amore
che voleva nascere
che voleva crescere.
Questo era mio figlio
quand'era vivo,
quando lottava contro tutti:
uomini di panza
che non valgono neppure un soldo
padri senza figli
lupi senza pietà.
Parlo con lui vivo
non so parlare
con i morti.
L'aspetto giorno e notte,
ora si apre la porta
entra, mi abbraccia,
lo chiamo, è nella sua stanza
a studiare, ora esce,
ora torna, il viso
buio come la notte,
ma se ride è il sole
che spunta per la prima volta,
il sole bambino.
Questo non è mio figlio.
Questa bara piena
di brandelli di carne
non è di Peppino.
Qui dentro ci sono
tutti i figli
non nati
di un'altra Sicilia.