Il 12 maggio del 1977, durante una manifestazione organizzata dai radicali per l’anniversario del referendum sul divorzio, scoppiano tafferugli con le forze dell’ordine durante i quali viene colpita mortalmente alle spalle Giorgiana Masi, 19 anni, una ragazza come tante che paga l’incolpevole colpa di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.

Il padre di Giorgiana era parrucchiere, la madre casalinga. 

Frequentava il quinto anno del liceo scientifico Pasteur. La domenica distribuiva il giornale Lotta continua, a scuola animava un collettivo femminista. Uscendo di casa aveva detto alla mamma: “Non succederà nulla. È una giornata di festa. Canteremo e festeggeremo. Se accadono incidenti mi metto al sicuro”. 

Poche ore dopo sarà uccisa, non si saprà mai da chi.

Le principali ipotesi formulate durante le indagini saranno due: l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga sosterrà che il colpo fosse partito dalla pistola di uno dei membri del gruppo Autonomia Operaia che si era unito alla manifestazione, mentre da più parti si sosterrà che a sparare fosse stato uno degli agenti delle forze dell’ordine in borghese.

Cossiga si dichiarerà pronto a dimettersi al manifestarsi di una condizione: avere “le prove che la polizia aveva sparato”.

Tano D’Amico fotograferà l’agente Giovanni Santone in borghese armato durante gli scontri (“Andai a letto convinto che Cossiga si sarebbe dimesso la mattina dopo - dirà il fotografo anni dopo - Invece sono io che sono stato dimesso da tutto, perché avevo rotto le scatole”).

Ma l’inchiesta sulla sua morte verrà chiusa il 9 maggio 1981 con "l'impossibilità a procedere poiché rimasti ignoti i responsabili del reato”.

“Una decisione a mio giudizio altrettanto assurda dell’assassinio di Giorgiana - sarà il commento di Nilde Iotti - poiché le modalità della carica, della sparatoria e della morte sono purtroppo assai semplici: ma il giudice ha decretato che gli assassini sono senza volto, senza nome e anche senza appartenenza; sono sciacalli ignoti”.

“Purtroppo - scriverà Camilla Cederna - ne abbiamo visti tanti, di ragazzi morti per le strade dal Settanta a oggi, in quelle pose di disperato abbandono, e tutt’intorno la gran chiazza di sangue: abbiamo udito dichiarazioni di ministri che il giorno dopo capovolgevano la verità e caroselli di bugie di funzionari di polizia e semplici agenti: abbiamo assistito tanto a complicati giochi di bossoli che sparivano e ricomparivano per poi sparire un’altra volta, come alla manipolazione delle pistole, mentre i testimoni oculari costantemente inascoltati, si sgolavano a raccontare quanto avevano visto”.
Una storia purtroppo, anche se in contesti e forme completamente diversi, tristemente attuale.

Una storia - tante storie - che solo a volte, e Ilaria Cucchi ce lo ha insegnato, si concludono con l’ottenimento della verità. Una storia - tante storie - che purtroppo ancora chiedono verità e giustizia. Una storia - tante storie -  per le quali continuiamo a chiederci chi sia Stato. Perché qualcuno è Stato.

Se la rivoluzione di ottobre fosse stata a maggio - se tu vivessi ancora - se io non fossi così impotente di fronte al tuo assassinio - se la mia penna fosse un’arma vincente - se la mia paura esplodesse nelle piazze - coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola - se l’averti conosciuta diventasse la mia forza - se i fiori che abbiamo regalato - alla tua coraggiosa vita nella nostra morte - almeno diventassero ghirlande - dalla lotta di noi tutte donne - se... non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita - ma la vita stessa, senza aggiungere altro.