“Se un uomo cucinava per i partigiani, era un cuoco partigiano; se una donna cucinava era una cuoca” (Anna Bravo)

Il 6 maggio 1945, proprio come a Milano, anche a Torino in piazza Vittorio Veneto i partigiani che hanno partecipato alla Liberazione sfilano di fronte alle autorità e i torinesi si riuniscono per festeggiare. Celebrata la funzione religiosa i reparti si dispongono per la sfilata. Il reparto d’onore sfila in testa, seguito dai Gap. Tra i discorsi ufficiali, quelli del presidente del Cln piemontese Franco Antonicelli e del nuovo sindaco di Torino Giovanni Roveda. Ma quel giorno a Torino non sfilano proprio tutti. Non sfila, ad esempio, Tersilla Fenoglio (Trottolina).

Nell’introduzione al volume La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi si legge:

Le donne furono le saldissime maglie della rete, rischiando spesso più degli uomini perché, se catturate, il nemico riservava loro violenze carnali che ai maschi non toccano. Nel ridimensionamento, anzi nella polverizzazione che "il vento del Sud" portò ai valori sociali della Resistenza in nome della continuità dello Stato, le donne partigiane furono doppiamente tradite: dalle forze politiche tradizionali e in molti casi, più dolorosamente, dagli stessi compagni di lotta.
Dopo la Liberazione la maggior parte degli uomini considerò naturale rinchiudere nuovamente in casa le donne.
Il 6 maggio 1945 Tersilla Fenoglio (Trottolina) non poté neppure partecipare alla grande sfilata delle forze della Resistenza a Torino.
"Ma tu sei solo una donna!", si sente rispondere da un compagno di lotta nell’estate del 1945 la partigiana Maria Rovano (Camilla), quando chiede spiegazioni dei gradi riconosciuti soltanto ad altri. Mentre a Barge il vicario riceve il brevetto partigiano prima di lei. E Nelia Benissone (Vittoria)? Dopo aver organizzato assalti ai docks, addestrato gappisti e sappisti, lanciato molotov contro convogli in partenza per la Germania, disarmato militari fascisti per la strada, anche da sola, e dopo esser stata nel 1945 responsabile militare del suo settore, non sarà forse riconosciuta dalla Commissione regionale come "soldato semplice"?

Le foto delle partigiane col fucile in mano oggi sembrano scontate, piacciono anche molto, ma per anni non hanno circolato. A molte partigiane, esattamente come a Trottolina, nei giorni successivi il 25 aprile viene chiesto di non sfilare o di farlo, quanto meno, senza armi, oppure - ancora meglio - vestite da crocerossine.

“Con gli uomini sfilarono le partigiane in abiti maschili - scriveva ne I ventitré giorni della città di Alba Beppe Fenoglio - e qui qualcuno fra la gente cominciò a mormorare: ‘Ahi! povera Italia!' Perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e si erano scaraventate in città”.

“Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza - ribadiva Lidia Menapace - Abbiamo rischiato come gli uomini ma allora in tanti ci guardavano male. E il giorno della Liberazione ci chiesero di non sfilare”.

“La festa della Liberazione - aggiungeva - è di tutti. Non è da dedicare a qualcuno. Riguarda la storia italiana, riguarda donne e uomini, giovani e anziani. A proposito di cose non belle, ricordo che anche il 25 aprile di 75 anni fa ce ne fu una. Si decide che nella grande manifestazione di Milano sfileranno in prima fila gli uomini dei principali partiti. Togliatti dice: le donne no. Erano ragazze che avevano condiviso la montagna, considerate delle 'poco di buono'. Le donne di Giustizia e Libertà decisero di sfilare lo stesso. Non in prima fila”.

“In alcuni casi, tra cui Torino - conferma la storica Paola Zappaterra - a molte donne che avevano realmente combattuto nelle brigate partigiane in montagna venne chiesto di non sfilare. L’eco della polemica finì anche su giornali come l’Unità o Noi donne e durò anche durante i lavori della Costituente dove furono elette solo ventuno deputate. Certo, si arrivò al diritto di voto anche per le donne, ma il problema fu talmente sentito che per rintuzzare molte ritrosie di deputati maschi si usò proprio la partecipazione alle battaglie come conferma per partecipare al voto”.

“Un diritto che venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ’45 - dirà Marisa Rodano - ma che non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese”.

Perché la Resistenza è un sostantivo femminile, per definizione. Una Resistenza che, soprattutto per le donne, continua…