Centinaia e centinaia di donne, provenienti da varie località del comune, convergono nella piazza antistante il palazzo municipale di Bondeno chiedendo pane e pace, protestando contro la guerra e il terrore nazifascista, anticipando i tempi di una liberazione che sarebbe arrivata di lì a pochi mesi. Sette saranno le arrestate.

“Quella mattina - racconterà la testimone Lidia Bellodi - convinsi mia madre a lasciarmi uscire (…) Era l’anno 1945, il 18 febbraio, alle ore 10. Avevamo l’appuntamento in piazza. E fu così che trovai le donne. (…)  con un cartone che aveva scritto sopra: ‘Vogliamo pane, abbiamo fame. Basta con la guerra!’ (…) siam partite. (…) Quando siamo arrivate in piazza c’erano già tante donne (…) Era domenica mattina, c’era solamente un gruppetto di uomini davanti al tabaccaio Gatti, che erano poi i contadini che venivano in piazza. Erano sbalorditi, mi ricordo che erano sbalorditi perché non sapevano cosa stava succedendo. Non so se la porta del Comune era stata manomessa da qualcuno, so solo che siamo riuscite a sfondarla. (…) E a precipizio su per le scale. Abbiamo riempito il Comune di donne. (…) siamo scese e siamo andate al primo piano dalla parte destra; c’era una porta con un bell’ambiente largo, pieno di scaffali con dei libri, i libroni dell’Anagrafe. E Silvana diceva: ‘Quelli, son quelli! Aprite le finestre, buttateli giù che andiamo giù!’. (…) Silvana rompeva le pagine, ma erano dure che facevamo fatica, perché i libri erano pesanti da tenere aperti. Era carta forte, mi ricordo questo particolare. Vittorina prese un mazzo di fogli… ‘Lidia, Lidia, accendi!’. (…) Intanto che si fa il falò arriva da via De Amicis un fascista di corsa con un fucile impugnato. Siamo scappate. Siamo scappate su alla destra, dalla stradina da dove siamo venute su. Non volevamo scappare a casa, ma vedere, se era possibile, cosa stava succedendo davanti; ma con gli spari, perché lui sparava, abbiamo avuto paura. C’era una porticina in fessura con due persone che stavano guardando cosa stava succedendo. E a tutte le finestre, mi ricorderò sempre questo fatto, c’erano tutte le persiane socchiuse così, con le persone che stavano guardando. Perché c’era il caos, c’era una gran confusione, degli urli, degli spari, di tutto e di più. (…) quando abbiamo aperto la porta, ho visto una mia conoscente di Scortichino insieme a un’altra amica, che sorreggevano una ragazza: le avevano sparato a una coscia e sanguinava (…)”.

Una pagina importante, poco nota di una Resistenza coraggiosamente al femmine. Una Resistenza attiva e fattiva, agita dalle partigiane in tempi e modi diversi. Staffette (o più correttamente ufficiali di collegamento), infermiere, dottoresse, vivandiere, sarte, combattenti. Senza di loro forse non saremmo liberi.

Eppure si fa ancora fatica ad ammetterlo nella narrazione di una Resistenza declinata ancora troppo spesso esclusivamente al maschile, nonostante l’ampiezza e la varietà dei compiti ricoperti dalle donne resistenti.

Oltre che assistere i feriti e gli ammalati e contribuire alla raccolta di indumenti, cibo e medicinali, le donne partecipano alla Resistenza portando il loro contributo alle riunioni politiche e organizzative e all’occasione sanno anche cimentarsi con le armi. Ricoprono tutti i ruoli: sono staffette - certamente - ma anche portaordini, infermiere, dottoresse, vivandiere, sarte; diffondono la stampa clandestina, trasportano cartucce ed esplosivi nella borsa della spesa, sono le animatrici degli scioperi nelle fabbriche.

Atti di sabotaggio, interruzione delle vie di comunicazione, aiuto ai partigiani, occupazione dei depositi alimentari tedeschi, approntamento di squadre di pronto soccorso sono solo alcuni dei compiti portati avanti con coraggio e tenacia dalle donne, cui bisogna aggiungere anche la loro attività di propaganda politica e di informazione.

Il loro contributo non si limita alle azioni dirette: le donne partecipano ai grandi scioperi del Nord, di più, li organizzano, sostituiscono i loro uomini quando chiedono pane, vestiti, carbone, migliori condizioni che mitighino la durezza del conflitto armato. E muoiono in quelle manifestazioni.

“È nella Resistenza - affermava Marisa Rodano - che le donne italiane, quelle di cui Mussolini aveva detto 'nello stato fascista la donna non deve contare'; alle quali tutti i governi avevano rifiutato il diritto di votare, la possibilità di partecipare alle decisioni da cui dipendeva il loro destino e quello dei loro cari, entrano impetuosamente nella storia e la prendono nelle loro mani. Nel momento in cui tutto è perduto e distrutto - indipendenza, libertà, pace - e la vita, la stessa sussistenza fisica sono in pericolo, ecco le donne uscire dalle loro case, spezzare vincoli secolari, e prendere il loro posto nella battaglia, perché combattere era necessario, era l’unica cosa giusta che si poteva fare”.

“Sarà la tua partecipazione alla lotta, sempre più attiva, che ti permetterà di conquistare i diritti, non solo economici, ma anche politici i quali ti permetteranno di affiancarti all’uomo per la ricostruzione dell’Italia nella nuova costituente, nella nuova democrazia progressiva”, recitava un volantino diffuso dal Comitato provinciale modenese dei Gruppi di Difesa della Donna il 3 aprile 1945.

Non sbagliava. Chiusa finalmente la triste parentesi fascista, il decreto legislativo luogotenenziale 1 febbraio 1945 n. 23 “concederà” alle maggiorenni di 21 anni il diritto di voto attivo, mentre il decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74 concederà alle donne maggiori di 25 anni il diritto di voto passivo.

“Un diritto che venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ’45 - dirà sempre Marisa Rodano - ma che non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese”.