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La riflessione

Parole come pietre. O come grimaldelli

Foto: Marco Merlini
Paola Rizzi
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I lemmi utilizzati per ferire, per negare, per non dire. Imparare a usarli significa restituire valore e senso alle cose. Restituire valore e senso a sé stesse.

Mettiamo una società dove le donne, pur tra mille difficoltà e con ancora inaudita fatica, conquistano metro dopo metro pezzi sempre più estesi di spazio pubblico, salgono sulle ribalte della scienza, delle professioni, della politica, escono dal cono d’ombra dei ruoli tradizionali o dalla visibilità scadente della pura ostensione dei loro corpi.

Mescoliamo queste novità con la rivoluzione dei social network, la gigantesca piazza virtuale che connette miliardi di persone in un’apparente relazione orizzontale all’insegna della libertà, dove tutti sono connessi con tutti e parlano di tutto. Attiviamo l’algoritmo che sovrintende a queste reti digitali che, ormai è dimostrato, fa business sulle nostre emozioni, soprattutto quelle negative, ed ecco che le parole si trasformano in pietre scagliate contro le donne, moltiplicate in milioni di post.

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È il singolare cortocircuito a cui assistiamo sempre più spesso: più le donne si affermano nella società, più su Facebook, Twitter e gli altri social si moltiplicano gli attacchi misogini e sessisti, come se il mondo digitale facesse riaffiorare il paradigma patriarcale che non vede di buon occhio questa nuova visibilità. Lo confermano tutte le analisi e i monitoraggi dello hate speech, dal barometro dell’odio di Amnesty alla Mappa dell’Intolleranza di Vox Diritti, a cui collabora anche GiULiA giornaliste e che anche nella sesta edizione presentata pochi giorni fa conferma la tendenza: le donne, da anni, sono sempre in testa alla classifica delle più attaccate sui social network, il bersaglio principale. Dietro si alternano altre categorie, quest’anno sono i musulmani. L’analisi dei dati mostra come nel corso del 2021 si sia odiato di meno (meno tweet in numeri assoluti) ma in modo più feroce (nel caso delle donne il 70% dei tweet sono negativi) e l’analisi dei picchi mette ben in luce la relazione stretta che intercorre tra le parole d’odio e la cronaca, evidenziando per esempio come ogni volta che sui social si leva lo sciame d’odio misogino, contemporaneamente avvengono femminicidi.

Il discorso sessista e misogino anche sulle reti sociali digitali assume molte forme, alcune più grezze, altre più sottili, con un elemento in comune: per attaccare quello che fa o che dice una donna, che sia la leader di un partito o una giornalista investigativa, un’attrice o una scienziata, la si attacca usando parole che denigrano il suo genere e non, appunto, quello che dice o che fa. Il suo corpo, innanzitutto, con il body shaming (cessa); la sessualizzazione (troia, con accompagnamento di minacce sessuali), lo slut shaming (insinuare che si è in quella posizione di spicco per favori sessuali).

Infine la si rimette in riga: torna a fare la calza, vai in cucina, chiudi quella bocca. Una parola d’odio che pretende di essere senza limiti per impedire agli altri di parlare e ridurre al silenzio. E che spesso viene eterodiretta da vere e proprie centrali dell’odio che operano per finalità politiche.

Tacita Muta era la divinità del silenzio, la ninfa a cui Giove aveva tagliato la lingua perché aveva rivelato a Giunone di essere stata violentata dal dio. La parola femminile che il potente non tollera. Sembrerebbe una divinità ancora in voga. Oltre alle parole violente ci sono anche le parole non dette e le parole sbagliate, che inquinano il modo in cui il discorso pubblico affronta la questione di genere.

Per esempio le parole sbagliate che si usano nelle questure, nei tribunali e sui giornali per parlare di violenza di genere, parole che nascondono sotto espressioni come “raptus” (solo il 4% degli autori di femminicidi ha una patologia mentale) o “uccisa per troppo amore” la realtà di uomini incapaci di stare all’interno delle relazioni in modo paritario, parole morbose che scandagliano corpi e vite delle vittime per capire cosa possa aver provocato la “reazione” dell’uomo. Qui vale sempre la lezione di Tina Langostena Bassi che, nel famoso processo del 1979, ricordava come lo stupro sia l’unico reato in cui si mette alla sbarra il comportamento di chi lo ha subito. È  ancora così, anche sui media, anche se un po’ meno.

Ci sono poi le parole non dette, il negazionismo lessicale che ritiene il femminile una sorta di diminutio. Tutte le discussioni ricorrenti sulla femminilizzazione dei nomi delle cariche (secondo le regole della grammatica certificate dalla Crusca), che suscitano sempre una grande irritazione e vere shitstorm di parole d’odio nei confronti delle testimonial di queste battaglie, tradiscono la volontà di mantenere fuori dalla visibilità che le parole offrono, e quindi dai giochi, le donne che non stanno nel posto che, tocca ripeterlo, il patriarcato ha loro assegnato. In fondo alla scala sociale (infermiera sì) e non ai vertici (medica no). Le parole possono essere pietre, ma sono anche grimaldelli per rompere recinti.

Paola Rizzi, componente del direttivo di GiULiA