Il 16 novembre del 1922 Benito Mussolini pronuncia quello che passerà alla storia come "il discorso del bivacco". È il primo discorso tenuto dal duce in veste di Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia. “Signori - dirà - quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza (…) Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”.

Il giorno dopo, a rispondere al nuovo capo di governo è il leader socialista Filippo Turati, con parole durissime che condannano Mussolini e, allo stesso tempo, denunciano il silenzio e, in alcuni casi, la complicità dell'aula. "Il Parlamento è morto" sarà il titolo con il quale quell'intervento verrà poi ricordato:  "... La Camera - dirà Turati - non è chiamata a discutere e a deliberare la fiducia; è chiamata a darla; e, se non la dà, il Governo se la prende. È insomma la marcia su Roma, che per voi è cagione di onore, la quale prosegue, in redingote inappuntabile, dentro il Parlamento. Ora, che fiducia può accordare una Camera in queste condizioni? Una Camera di morti, di imbalsamati, come già fu diagnosticata dai medici del quarto potere? ... Si ebbe l'impressione di un'ora inverosimile, di un'ora tolta dalle fiabe, dalle leggende; quasi direi un'ora gaia dopo che, dicevo, il nuovo Presidente del Consiglio vi aveva parlato col frustino in mano, come nel circo un domatore di belve - oh! Belve, d'altronde, deh quanto narcotizzate! - e lo spettacolo offerto delle groppe offerte allo scudiscio e del ringraziamento di plausi ad ogni nerbata ..."

Tra i parlamentari presenti, quei giorni di novembre del 1922, c’è anche il giovane deputato socialista, Giacomo Matteotti, che due anni più tardi, il 10 giugno del 1924 verrà rapito sul lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma e ucciso. “Voi che oggi avete in mano il potere e la forza - aveva detto il 30 maggio Tempesta, come lo chiamavano i suoi amici di partito, nel suo ultimo discorso alla Camera -, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti gli altri essere in grado di far osservare la legge da parte di tutti. Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della nazione”. Si racconta che a chi si congratulava con lui per quelle parole pronunciate alla Camera Matteotti avesse risposto sorridendo: “E adesso potete preparare la mia orazione funebre”. In effetti, Benito Mussolini ne ordinerà la morte per mettere a tacere le sue denunce di brogli elettorali attuati dalla dittatura nelle elezioni del 6 aprile 1924 e le sue indagini sulla corruzione del governo.

Per protesta contro il rapimento del deputato socialista, tutta l’opposizione parlamentare si ritira sul cosiddetto Aventino. Il 26 giugno 1924 circa 130 deputati d’opposizione (popolari del Ppi, socialisti del Psu e del Psi, comunisti del Pcd’I, liberaldemocratici dell’Opposizione Costituzionale e del Psdi, repubblicani del Pri e sardi del Psd’Az) si riuniscono nella sala della Lupa di Montecitorio decidendo comunemente di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito la propria posizione a proposito della scomparsa di Giacomo Matteotti. Le motivazioni dell’abbandono saranno spiegate da Giovanni Amendola sul Mondo: “Quanto alle opposizioni, è chiaro che in siffatte condizioni, esse non hanno nulla da fare in un Parlamento che manca della sua fondamentale ragione di vita. (…) Quando il Parlamento ha fuori di sé la milizia e l’illegalismo, esso è soltanto una burla”.

Il 27 giugno sarà di nuovo Filippo Turati a ricordare il compagno di partito il cui corpo, però, verrà ritrovato solo ad agosto: "Il morto si leva. E parla. E ridice le parole sante, strozzategli nella gola, che furono da uno dei sicari tramandate alle genti, che son Sue quand'anche non le avesse pronunciate, che son vere se anche non fossero realtà, perché sono l'anima Sua; le parole che si incideranno nel bronzo sulla targa che mureremo qui o sul monumento che rizzeremo sulla piazza a monito dei futuri: "Uccidete me, ma l'idea che è in me non la ucciderete mai... La mia idea non muore... I miei bambini si glorieranno del loro padre... I lavoratori benediranno il mio cadavere... Viva il Socialismo!"

Seguiranno mesi di braccio di ferro, in cui il governo fascista sembra sul punto di capitolare, ma il 3 gennaio 1925, con un famoso discorso alla Camera, Mussolini assume in prima persona la responsabilità politica del delitto: “Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi”. È l’inizio del Regime, venti anni di dittatura, guerra, morte.