Il 17 maggio 1949, a Molinella in provincia di Bologna, Maria Margotti, vedova e madre di due bambine, operaia della fornace cooperativa di Filo (al confine delle provincie di Ferrara e Ravenna), dove aveva trovato da poche settimane occupazione, viene falciata da una raffica di mitra esplosa da un carabiniere. Luciano Romagnoli, segretario generale della Federbraccianti, scriverà di lei sulla Nuova Scintilla del 21 maggio 1949: “È un’altra eroina che aggiunge il suo nome alla lunga schiera di eroi che hanno dato la loro vita per la libertà e per il lavoro”.

Commentava a un anno dagli avvenimenti su l’Unità del 18 maggio 1950 Renata Viganò (autrice di “L’Agnese va a morire”): “È morta come poteva morire qualsiasi altra delle donne del Mulino di Filo, perché sono tutte braccianti e compagne, e allo sciopero tutte aderiscono (…); è diventata un simbolo, una bandiera, la prima bracciante caduta nello sciopero della primavera del ’49, un nome, una figura che esce dai nostri piccoli ricordi di compagni per entrare nel rosso elenco dei caduti per l’umanità, per la gioia, per il lavoro, il pane dell’umanità”.

È morta come poteva morire qualsiasi lavoratrice, qualsiasi lavoratore nel nostro bel Paese di qualche anno fa. Sei mesi dopo la morte di Maria Margotti, il 9 gennaio 1950, a Modena si protesta contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite. La polizia spara ancora sulla folla provocando questa volta la morte di sei lavoratori: Angelo Appiani (meccanico ed ex-partigiano di 30 anni), Renzo Bersani (operaio metallurgico di 21 anni), Arturo Chiappelli (spazzino disoccupato di 43 anni), Ennio Garagnani (carrettiere nelle campagne di Gaggio di 21 anni), Roberto Rovatti (fonditore di 36 anni) e Arturo Malagoli (operaio ed ex-partigiano di 21 anni).

“Voi chiedevate una cosa sola - dirà Palmiro Togliatti il giorno dei funerali - il lavoro, che è la sostanza della vita di tutti gli uomini degni di questo nome. Una società che non sa dare lavoro a tutti coloro che la compongono è una società maledetta. Maledetti sono gli uomini che, fieri di avere nella mani il potere, si assidono al vertice di questa società maledetta, e con la violenza delle armi, con l’assassinio e l’eccidio respingono la richiesta più umile che l’uomo possa avanzare; la richiesta di lavorare. È stato detto che questo stato di cose deve finire. È stato detto: basta! Ripetiamo questo basta, tutti assieme, dando ad esso la solennità e la forza che promanano da questa stessa nostra riunione. Ma dire basta, non è sufficiente, perché gli assassinii e gli eccidi si succedono come le note di una tragedia, in modo tale che non ha nessun precedente nel nostro paese, e che tutti riempie di orrore. Non è sufficiente dire basta, dobbiamo impegnarci a qualche cosa di più. Noi vogliamo la pace sociale e la pace tra i popoli. Anche a questo governo ed agli uomini che lo dirigono abbiamo offerto e chiesto una politica di distensione e dì pace. A milioni di lavoratori che appoggiavano questa nostra offerta e richiesta, si è risposto con le armi da fuoco, con l’assassinio, con l’eccidio. Non possiamo non tener conto di questa risposta. E’ di fronte ad essa che dobbiamo assumerci un nuovo impegno”.

Ai funerali, l’11 gennaio, l’Unità invia Gianni Rodari, allora giovane cronista che scriverà: “La città gloriosa, ammutolita dal dolore e stretta intorno ai suoi assassinati del 9 gennaio si è riempita stamani di passi pesanti che popolavano le sue strade, le sue piazze (…) I sei avevano l’espressione contratta del dolore e dello spaventoso stupore in cui li sorprese la morte. Caduti allineati l’uno a fianco dell’altro nelle bare avvolte in bandiere. I tre ragazzi di 20 anni sembravano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti sembrava dovuta ad un sogno angoscioso e passeggero… Sulle fotografie i volti sembravano anche più giovani. Garagnani e Malagoli avevano una luce quasi infantile”.

“Le bare - proseguiva - erano portate a spalla da operai, ferrovieri, tramvieri, braccianti. Su ognuna di esse un modesto cartello col nome e l’età del caduto: Appiani Angelo, anni 20; Bersani Renzo, anni 21; Garagnani Ennio, anni 21; Chiappelli Arturo, anni 43; Malagoli Arturo, anni 21; Rovatti Roberto, anni 36. Niente altro. Da tutti i muri della città le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli. Dietro le bare camminavano i familiari composti nell’atroce dolore, Alcuni di loro, poche ore dopo la morte dei loro cari, sono intervenuti al comizio di protesta a cui ha partecipato tutta la città, e solo la parola 'eroismo' può definire questa capacità di fondere un dolore personale alla grande voce di una protesta collettiva”.

“Si noti - tuonava una settimana più tardi dalle colonne di Lavoro Giuseppe Di Vittorio - che tutti questi lavoratori sono stati uccisi unicamente perché chiedevano di lavorare, gli uni sulla terra incolta, gli altri nella fabbrica serrata (…). I lavoratori sono stanchi di piangere i loro morti e non sono affatto disposti a lasciar soffocare nel sangue i loro bisogni di lavoro o di vita. La Cgil con la sua forza e il suo prestigio è riuscita sinora a contenere in limiti normali la protesta popolare contro gli eccidi. Ma la storia insegna che, al di là di un tale limite, nessuna forza umana può garantire i confini entro i quali possa essere contenuta una collera popolare lungamente compressa. Questo è il monito che viene da Modena”. Un monito, una tragedia, tante tragiche storie che mai come oggi è opportuno non dimenticare.