Il calcio è tutta la sua vita. Per il calcio ha lasciato un lavoro “sicuro” in un’agenzia di comunicazione che non le permetteva di allenarsi come doveva. Per il calcio ha scelto di guadagnare di meno pur di inseguire la sua passione. E quando ha saputo che era incinta non ha potuto trattenere le lacrime: di gioia per il dono che stava ricevendo e di tristezza per dover lasciare ciò che amava di più. La storia di Alice Pignagnoli, portiere del Cesena, che in questo campionato milita in serie B, ha fatto il giro del web, anche perché ha un lieto fine.

“La mia società ha creduto in me, nelle mie doti umane, nelle mie capacità – racconta –. E dopo aver risolto consensualmente il contratto, perché questo prevedeva la Federazione, mi ha promesso di riassumermi la stagione successiva, subito dopo il parto. E così ha fatto. Mi hanno dato l’opportunità straordinaria di continuare a fare quello che amo, e mentre ero incinta ho continuato a seguire la squadra rimborsandomi i costi di trasferta e di viaggio. Ma questo è un caso virtuoso, unico: le difficoltà che io e le altre atlete viviamo sono enormi”. Il punto è che le atlete donne non sono riconosciute come professioniste. Cioè tutto lo sport femminile è considerato dilettantistico, a qualsiasi livello, anche quelli più alti: prevede obblighi ma non diritti.

 

 

“Noi siamo ancora viste come delle ragazze che giocano a pallone per divertimento, ma ci viene richiesta la stessa professionalità e il medesimo impegno che si pretendono da un calciatore uomo: ci alleniamo tutti i giorni tutto il giorno. La mia giornata ruota intorno al calcio, parte e si esaurisce in funzione del calcio: dall’alimentazione all’impegno fisico e mentale. Per dieci mesi all’anno non hai ferie, non hai permessi, non puoi dire ‘ho il battesimo di mia figlia, non vengo al lavoro’. E nei due mesi in cui non pratichi non percepisci nessun compenso, ma non puoi rimanere ferma perché devi continuare ad allenarti”.

Niente pensione, malattia, ferie, maternità prevista da un fondo dell’associazione calciatori (a cui è comunque difficile accedere perché devi rispettare precisi standard), dieci mensilità e poi ti ritrovi con un bimbo di due mesi a cercare qualcuno che ti faccia un contratto per portare a casa il pane. “Non è possibile che una cosa così importante sia lasciata alla discrezione delle società – riprende Alice -. Ci sono persone per bene come è capitato a me di incontrare, che credono nei valori dello sport e non solo nei risultati, e persone come quelle che purtroppo ha trovato Lara Lugli (la pallavolista del Volley Pordenone licenziata e poi citata per danni a seguito della gravidanza, ndr). Dopo la mia vicenda è stato inserito nel contratto di lavoro l’articolo 8 che prevede che società non possano più risolvere i contratti in caso di maternità. Ma dopo possono sempre non rinnovartelo”.

La riforma dello sport di recente approvazione introduce disposizioni a sostegno delle donne nello sport, istituisce un fondo per il professionismo negli sport femminili e l’obbligo per il Coni di emanare, entro sei mesi, un regolamento con i principi informatori per promuovere l’incremento della partecipazione femminile e della rappresentanza delle donne nello sport. Ma è solo un primo passo. La strada della parità è lunghissima, anche perché si parte da condizioni ottocentesche. “Con la crescita della serie A negli ultimi anni anche la B è diventata più professionale, ci sono mediamente compensi più alti che permettono alle ragazze di svolgere questa come unica attività – prosegue la calciatrice -. Come fanno le compagne che hanno un altro lavoro? Il loro impegno si limita alle due ore di allenamento serale e alle partite la domenica e il compenso naturalmente è proporzionato”.

Ma ci sono tante ragazze che abbandonano dopo gli studi, perché non hanno possibilità. “E poi dicono che il calcio femminile è brutto – aggiunge -. Noi non abbiamo le stesse chance degli uomini e questo restringe il campo. Dopo il boom dei Mondiali 2019 siamo arrivate a 36mila tesserate, in quel numero devi trovare i talenti, la Germania li deve cercare tra 300mila calciatrici. Sono 25 anni che gioco e non ho accumulato neppure euro di pensione. Eppure ho dedicato tutta la mia vita al calcio. Ogni mattina mi alzo, faccio 2 ore di treno per andare da Reggio Emilia a Cesena e due ore per tornare a casa, a guardare la mia bimba che già dorme. E la domenica quando sono in trasferta delle volte neppure la vedo. Nonostante questo, mi ritengono davvero fortunata”.