La mamma, accortasi dello spavento che provavo, mi disse che quelle donne erano le pulitrici dell’oro, che protestavano perché con la loro paga, guadagnata lavorando dodici ore al giorno, non riuscivano a comprarsi nemmeno il pane e che le loro mani erano distrutte dall’acido che usavano per pulire l’oro. E mi disse che non dovevo avere paura dei lavoratori in sciopero e che mi sarebbe capitato spesso di re-incontrarli. Chiesi dove andassero e perché quell’uomo le guidasse. Lei rispose che non sapeva dove stessero andando ma che quel signore che imbracciava la bandiera rossa era Filippo Turati, il fondatore del Partito socialista italiano.

Il 14 aprile del 1988 moriva Camilla Ravera, tra i fondatori del Pci nel 1921, unica donna che durante il periodo della formazione del gruppo dirigente del Partito comunista assunse la statura di dirigente politico nazionale entrando nel 1923 nel Comitato centrale e nel 1926 nell’Ufficio politico, dirigente per molti anni dell’Unione donne italiane, prima donna a diventare senatrice a vita nel 1982.

Dopo le leggi fascistissime del 1926 e l’arresto di Gramsci, si impegnerà per tenere insieme e in costante contatto i comunisti italiani, cercando di rafforzare l’organizzazione clandestina del Pci. Arrestata nel 1930 ad Arona (Novara) e condannata a 15 anni di carcere, ne sconterà cinque in cella, gli altri al confino a Montalbano Jonico, San Giorgio Lucano, Ponza e Ventotene (al momento della scarcerazione, le sue condizioni di salute erano tanto precarie che, prima di essere avviata al confino, fu mandata in licenza a casa sua a Torino, dove rimase fino al novembre del 1936). 

Mussolini ordina il suo primo arresto nel novembre 1922, ma Camilla riesce a sfuggire alla cattura per quasi otto anni. Per un po’ di tempo si fa chiamare “Silvia”, poi, il suo nome in codice diventa “Micheli”, tanto che in molti, tra i fascisti che le danno la caccia, pensano di avere a che fare con un uomo. Nel 1939 prende posizione contro il Patto Molotov-Ribbentrop e viene per questo espulsa dal PCdI insieme a Umberto Terracini.

Ricorderà questo fatto per lei drammatico così:  “Io e Umberto sostenevamo che, se il principio del socialismo era universale, ogni Paese aveva il diritto di costruirlo sulle proprie esigenze e specificità e che un passaggio di società come quello che c’era stato in Russia non era obbligato anche da noi; mentre altri compagni, come Secchia e Scoccimarro, consideravano errato il solo fatto di pensare che la via seguita in Urss potesse non essere universale come se tutto fosse già stabilito e preparato. Mi hanno sempre fatto paura le idee settarie e chiuse: forse perché sia io che Terracini ci eravamo formati nel gruppo di Gramsci dove c’era una grande capacità di critica e di discussione. Così ci cacciarono via del Partito. Sì, fu per me un momento molto amaro”.

“C’era dunque, nella vita di Camilla Ravera, che era stata uno dei fondatori del partito a Livorno e uno dei suoi segretari - racconterà Miriam Mafai - un buco nero di alcuni anni. Dal 1939 al 1945 era rimasta fuori del partito, colpita da un provvedimento disciplinare. Sono anni di solitudine estrema sopportati con grande dignità, tanto più dolorosi in quanto sono gli stessi anni in cui, dopo la caduta del fascismo, si organizza in Italia la Resistenza, l’attività clandestina e armata. Il provvedimento nei suoi confronti verrà ritirato soltanto dopo la Liberazione quando, nel maggio del l945, Togliatti arriva a Torino. È in federazione, attorniato dai compagni quando, con aria sorniona, chiede: 'E dov’è la Ravera?'. Qualcuno risponde imbarazzato che la Ravera non c’è, non può esserci perché non è più nel partito. E Togliatti: 'Ma non scherziamo... Chiamatemi la Ravera e non si parli più di quella sciocchezza'”.

Riammessa nel partito nel 1945, sarà eletta al Consiglio comunale di Torino l’anno seguente, poi in Parlamento (come deputata fu cofirmataria di progetti di legge soprattutto su materie come la tutela della maternità e la parità dei diritti e delle retribuzioni tra uomo e donna). In molti chiamavano Camilla Ravera "la maestrina di Acqui" perché da giovanissima aveva lavorato come maestra elementare, un soprannome veramente poco adatto per una donna tanto rivoluzionaria e incredibile precorritrice dei propri tempi.

“In tempi in cui per le donne era quasi impossibile partecipare attivamente alla vita politica e sociale - affermava commemorando la sua scomparsa Nilde Iotti - Camilla Ravera è già una protagonista, in quella fucina di elaborazione teorica e di azione politica che è la Torino dell’Ordine nuovo e dei primi grandi nuclei di classe operaia, delle lotte che seguirono la fine della prima guerra mondiale, del drammatico insorgere del fascismo. Nel periodo cruciale della formazione del gruppo dirigente di quello che diverrà nel ‘21 il partito comunista d’Italia”.

“Se ne va, con Camilla Ravera - dirà Alessandro Natta - una protagonista e una testimone di decenni e decenni di drammi, di tempeste e di luci, di sofferenza, di travaglio intellettuale, di tragiche sconfitte, di folgoranti riscatti, di lotta sempre”. Nel 1982 Sandro Pertini, presidente della Repubblica e suo compagno di confino, nomina la combattente Camilla senatrice a vita. Quando, il 26 gennaio 1982, fa il suo primo ingresso a Palazzo Madama, i senatori, riuniti in assemblea plenaria, l’accolgono tutti in piedi.

La sua nomina, scriveva in un commosso messaggio la presidente della Camera Nilde Iotti, “premia una lunga e straordinaria milizia al servizio della libertà, della democrazia, del socialismo. Grazie anche a te, carissima Camilla, è stata mantenuta viva l’idea della libertà nel periodo più buio della travagliata storia italiana; la democrazia si è arricchita di grandi contenuti innovatori; il movimento emancipatore delle donne ha avuto slancio e conseguito grandi successi. Voglio quindi esprimerti la commossa soddisfazione mia personale e di tutta la Camera dei deputati per una nomina che onora altamente il Parlamento”.

“Mi ha sempre colpito - dirà Norberto Bobbio ricordando di averla conosciuta subito dopo la Liberazione - nella sua esperienza di vita la serenità e la nobiltà d’animo con la quale ha saputo affrontare le difficoltà della militanza politica che aveva scelto. È un esempio di dirittura morale: una donna che ha dedicato la sua vita ad una causa fino alle estreme conseguenze che questa scelta poteva comportare. Ammiro la sua capacità di guardare alle difficili tappe della battaglia politica con fermezza e senza rancori per nessuno. In lei vedo l’ultima espressione della grande tradizione torinese comunista; di quel gruppo che, con Gramsci alla testa, seppe tessere proficui rapporti con la cultura laica rappresentata da Piero Gobetti”.

“Era piccola, magra, un po’ curva, i capelli bianchi ordinatamente raccolti sulla nuca”,  così la descriveva il giorno successivo alla sua scomparsa Miriam Mafai. Così la ricordiamo in tanti nella nota fotografia con Enrico Berlinguer che le rivolge uno sguardo affettuoso ed un sorriso dolce. Un sorriso che racchiude affetto, stima, rispetto, quasi deferenza per quella piccola (solo fisicamente!) grande, grandissima donna. Una donna straordinaria che ha fatto la storia del nostro Paese.