La storia
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Alla Miteni, un’azienda chimica del vicentino lontana dai riflettori e ormai chiusa, per decenni si è consumato un caso di contaminazione industriale tra i più pericolosi d’Europa. Oggi, finalmente, l’Inail riconosce la malattia professionale per gli ex lavoratori – che hanno altissime concentrazioni di sostanze velenose nel sangue – anche se non hanno sviluppato una patologia. Una vittoria esemplare ottenuta grazie alla perseveranza del patronato Inca e delle strutture Cgil. Ve la raccontiamo attraverso le testimonianze di medici del lavoro, familiari delle vittime, attivisti e protagonisti del mondo sindacale.
(coordinamento editoriale Maurizio Minnucci; copertina e illustrazioni Massimiliano Acerra, timeline Martina Toti)
Di storie come quella della Miteni l’Italia è piena. Fabbriche che producono, si arricchiscono, inquinano, avvelenano gli operai e i cittadini, e poi chiudono i battenti, o meglio falliscono. Lasciando così nei terreni sostanze tossiche, nelle comunità una scia di malattie e di morti e negli animi il ricordo di un posto di lavoro che ha dato da mangiare, ma per il quale è stato pagato un prezzo troppo alto. Con la vicenda della Miteni, però, si sta riscrivendo la storia delle battaglie a tutela della salute dei lavoratori, e creando un precedente importante per tutte le battaglie future. Perché da qui, dalla provincia di Vicenza dove ha sede l’azienda chimica chiusa per fallimento nel 2018, è partita l’azione del sindacato che ha portato a una straordinaria conquista: il patronato Inca della Cgil ha affermato il diritto dei lavoratori a vedere riconosciuta la malattia professionale per essere stati esposti per anni a composti nocivi, il diritto di chi questi composti li ha nel corpo a essere preso in carico dalle istituzioni, anche se non ha ancora sviluppato una patologia, il diritto delle persone a un ambiente di lavoro e di vita sano.
Il centro storico di Valdagno Trissino
“Quella che abbiamo ottenuto è una vittoria importantissima – ci racconta Anna Bilato, coordinatrice regionale dell’Inca Cgil Veneto –. Siamo partiti con la denuncia di malattia professionale per i lavoratori della Miteni, che erano stati esposti per anni ai Pfas e Pfoa e avevano una concentrazione elevatissima nel sangue di queste sostanze nocive. Grazie all’impegno e alla costanza dell’Inca di Vicenza e di Valdagno, della Camera del lavoro di Vicenza e dei medici legali, in coordinamento con le strutture regionali, siamo riusciti a portare a casa un risultato insperato fino due anni fa: il riconoscimento da parte dell’Inail della malattia professionale, anche senza la presenza di un danno funzionale. È la prima volta che accade, ed è una conquista enorme perché crea un precedente: questi lavoratori potranno nel tempo essere monitorati, presi in carico dall’Inail e se dovessero sviluppare patologie per essere stati a contatto con questi veleni, potranno avere un riconoscimento in termini di risarcimento”.
All'ingresso della fabbrica
Pfas, molecole di sintesi
Incontriamo Anna Bilato a Trissino, grazioso ed elegante paese del vicentino a due passi dallo stabilimento chimico oggi in fase si smantellamento, uno dei centri di quella che la Regione Veneto ha classificato come la “zona rossa”, cioè l’area considerata più inquinata. Perché la storia della Miteni non riguarda solo i dipendenti avvelenati per decenni, ma un’intera comunità, una popolazione di circa 350 mila persone.
Tutto ha inizio nel 1965: i Marzotto fondano la Rimar
L'obiettivo è farne un centro di ricerca sulle sostanze per impermeabilizzare i tessuti. Poco dopo iniziano a produrre i perfluorurati, brevettati anni prima negli Stati Uniti dalla 3M, i Pfas, una sigla che indica almeno quattromila composti diversi. “Sono molecole di sintesi che non esistono in natura ma che trovano un’applicazione vastissima” ci spiega Enzo Merler, medico del lavoro, e autore di due studi scientifici sul tema. Nelle pentole antiaderenti come negli imballaggi alimentari, nella sciolina per gli sci come nel Goretex, nella cera, nei detersivi, nelle vernici, praticamente dappertutto. Lo stabilimento ha sede alle pendici della valle dell’Agno, appena a ridosso dei monti Lessini, in un territorio che alterna capannoni industriali degni della fama dell’operoso Veneto a zone agricole coltivate a viti e ortaggi. Nel sottosuolo si trova una delle più grandi falde acquifere d’Europa, da dove pescano gli acquedotti di 21 Comuni delle province di Vicenza, Verona e Padova, e un imprecisato numero di pozzi privati.
È qui che si consuma il caso di contaminazione industriale tra i più grandi d’Europa. “Per decenni queste sostanze sono state prodotte, usate e sversate nel terreno senza che si conoscessero quali effetti potevano provocare nell’uomo – prosegue il dottor Merler –. Sono state messe sul mercato e non si sapeva della loro tossicità. In pratica, sono state ‘testate’ sugli operai. E anche dopo il primo grave episodio di inquinamento delle acque potabili, nel 1976, all’accaduto non sono state prestate le dovute attenzioni. Le istituzioni non hanno provato a valutare e misurare, hanno lasciato mano libera”. Quel primo incidente che provocò la fuoriuscita di sottoprodotti di lavorazione, seccò piante e terreno, inquinò l’aria e l’acqua, tanto che alcuni comuni dovettero chiudere gli acquedotti e costruire nuove condotte per attingere altrove l’acqua potabile. L’azienda fu multata ma assolta dall’accusa di disastro ambientale e sanitario. Intanto continuò a produrre, a sversare direttamente in un torrente che scorre proprio davanti allo stabilimento, il Poscola, a interrare fanghi anche in maniera abusiva. E non molto cambiò quando nel 1988 la Marzotto cedette lo stabilimento alla Enichem del gruppo Eni che subito dopo attivò una collaborazione con la giapponese Mitsubishi (da cui il nome Miteni).
«Le risposte fornite dall’azienda sono state inadeguate»
Nel frattempo fin dagli anni Sessanta negli Stati Uniti si erano messi a studiare gli effetti di queste sostanze sui lavoratori e sugli animali: nel 1978 la DuPont, che aveva acquistato il brevetto dei Pfoa dalla 3M, scoprì la presenza del composto nel sangue dei suoi dipendenti. “Ma di queste scoperte in Italia non arrivano notizie – racconta Enzo Merler –. La Miteni scimmiottava attività che sono diventate poi obbligatorie, come stabilire i livelli di concentrazione dei composti negli ambienti di lavoro e di assorbimento di queste sostanze nei dipendenti, e se i dipendenti sviluppavano dei danni. Le risposte che l’azienda nel tempo ha fornito sono state inadeguate. Per esempio, non è mai stata fatta una denuncia di malattia professionale dovuta ai Pfas. Eppure dagli esami ematologici fatti dal medico di fabbrica risultavano effetti importanti, come una modifica dei livelli dei trigliceridi e di alcuni enzimi epatici che indicavano una potenziale azione sul fegato”. E quando a partire dal 2000 il programma di sorveglianza aziendale ha previsto di misurare la concentrazione di Pfas e Pfoa nel sangue dei dipendenti si è scoperto che i lavoratori avevano livelli elevatissimi, fino a 22 mila volte più alti del normale: in media 20mila nanogrammi per litro di sangue, con picchi di 90mila, contro i 4 nanogrammi presenti di solito nel corpo di una persona.
Lo studio sugli operai
Lo studio pubblicato nel 2019 da Merler e dal dottor Paolo Girardi sulle cause di morte degli ex operai Miteni ha riscontrato un raddoppio di cancro al fegato e di tumori linfatici ed emopoietici, un aumento della mortalità per diabete, cirrosi epatica, ipertensione e suicidi. Oggi sulla nocività di Pfoa e Pfas non ci sono dubbi. Dal 2009 il loro uso è sottoposto a restrizioni da un trattato internazionale. Una direttiva europea li classifica come sostanze altamente persistenti, con elevata tendenza al bioaccumulo e molto tossiche. In pratica gli organismi viventi non sono capaci di smaltirli, metabolizzarli e trasformarli e quindi li accumulano: nell’uomo in una serie di organi, come fegato, cervello, rene. Essendo innaturali, i loro potenziali effetti sono moltissimi. Sono assimilabili a interferenti endocrini e possono entrare nel processo che protegge dal diabete.
La testimonianzaPasqualino, morto di lavoro
Patrizia Pallara
Possibile causa di cancro
Un ampio studio scientifico condotto negli Stati Uniti, che ha coinvolto 70 mila persone a seguito del processo che ha condannato la DuPont per lo sversamento decennale di Pfoa nel fiume Ohio, ha documentato un probabile legame con malattie tiroidee, ipertensione in gravidanza, ipercolesterolemia. Dal 2016 l’Airc, Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, li classifica come possibile causa di cancro al testicolo e al rene. Lo stesso che ha stroncato in un paio di anni Pasquale Zenere, operaio Miteni dal 1976 al 1992, addetto al reparto ecologia. “Il suo lavoro era maneggiare i rifiuti di produzione, metterli nei fusti per destinarli allo smaltimento, indossando dei semplici guanti – racconta la figlia Stefania –. Una o due volte all’anno gli facevano esami del sangue e visite mediche per stabilire se c’erano problemi, ma erano visite tipo quella della patente, in cui ti chiedono: ha avuto qualcosa? Ma quando siamo andati a vedere le analisi, abbiamo scoperto che alcuni valori, come quelli dei Pfas ma non solo, erano altissimi da anni”.
La sede Cgil di Valdagno
Rendita ai superstiti
Per il caso di Pasquale il patronato Inca si è attivato per il riconoscimento della rendita ai superstiti, cioè la richiesta all’Inail da parte del coniuge per la probabile causa professionale del decesso. “L’Inail ha respinto le domande che abbiamo presentato, cioè non ha riconosciuto il diritto alla rendita” precisa Anna Bilanto. Ma la battaglia del sindacato non si ferma. Con i medici legali sta elaborando i casi, acquisendo altre informazioni sanitarie, già presentato due ricorsi. “Non è stato facile ricostruire il nesso tra esposizione e lavoro – dice Silvino Candeloro, del collegio di presidenza dell’Inca Cgil nazionale –. In questo senso è stato importante aver sottolineato, anche in base alle poche evidenze scientifiche, una probabile relazione tra Pfas e Pfoa e specifiche patologie come tumori ai reni e ai testicoli. Il nostro impegno continua per assicurare a tutti i lavoratori esposti il giusto risarcimento”. Ora i superstiti sono in attesa dei responsi, ed è difficile prevedere come andrà. “E dice che mio padre era un grande lavoratore, a lui piaceva lavorare – ricorda Stefania –. Mai avrebbe pensato che proprio il lavoro lo avrebbe portato alla morte”.
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SECONDA PARTE «Acque contaminate»
La scoperta dell’inquinamento arriva nel 2013. Uno studio dell’istituto di ricerca Irsa–Cnr rileva la presenza di concentrazioni elevate di Pfas in un territorio della provincia di Vicenza, dove si trova un importante distretto conciario e l’azienda chimica Miteni. Poco dopo gli esperti dell’Arpav, Azienda per la prevenzione e la protezione ambientale del Veneto, puntano il dito sullo stabilimento Miteni. È partita da lì, dalla zona industriale di Trissino, la contaminazione di una falda acquifera grande come il lago di Garda. Ha natura storica, cioè è frutto degli sversamenti avvenuti nei decenni precedenti. Riguarda 21 Comuni e 350 mila persone, destinate, stando alle proiezioni, a diventare 800 mila. E poi c’è tutta la filiera alimentare, perché il Veneto esporta cibo in quantità. I Pfas sono finiti nei terreni, negli acquedotti, nell’acqua destinata all’irrigazione e agli allevamenti. L’area coinvolta abbraccia i comuni di tre province, Vicenza, Padova e Verona, il danno stimato dall’Istituto superiore di sanità e dall’Istituto per la protezione ambientale ammonta a 136 milioni di euro, con i terreni vicini all’azienda che andrebbero bonificati sia dai Pfas che da altri composti chimici altamente cancerogeni, come gli GenX e C6O4, sversati sempre dall’azienda dal 2012.
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Fino ad allora in Italia non si era sentito parlare delle sostanze perfluoroalchiliche e della loro tossicità. Molecole che non esistono in natura, vengono usate per rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi e si trovano in tantissimi oggetti di uso quotidiano, dalle pentole antiaderenti agli imballaggi alimentari, dai pellami e i tessuti impermeabili a certe pellicole.
Un'immagine della fabbrica ormai chiusa
Sono particolarmente subdole perché inodori, incolori, insapori. Rappresentano un grave pericolo sia per la salute umana che per l’ambiente, sono catalogate nelle liste internazionali di “sostanze estremamente preoccupanti” (Svhc) perché tossiche, persistenti e bio–accumulabili cioè il nostro corpo le integra e le accumula, ma non riesce a metabolizzarle né a smaltirle. La Miteni le ha prodotte, sversare e interrate fin dal 1968, anno della sua fondazione a opera dei Marzotto. E oltre ad avvelenare i lavoratori, ha avvelenato anche l’aria circostante lo stabilimento ma soprattutto il terreno e la falda.
Le famiglie non si fidano
“Dal 2014 la Regione ha adottato provvedimenti per rendere potabile l’acqua che beviamo, ha installato filtri a carboni attivi – racconta Giampaolo Zanni, segretario generale Camera del lavoro di Vicenza che si batte da anni con iniziative sindacali e politiche a tutela dei lavoratori e della popolazione –. Ma solo nel 2016 abbiamo cominciato tutti a fare i conti con questa drammatica realtà.
«Dopo anni di avvelenamento non beviamo più acqua di rubinetto»
E tante famiglie, compresa la mia, dopo anni di avvelenamento, non si fidano e non bevono più l’acqua del rubinetto”. La Regione ha anche attivato un sistema di sorveglianza sanitaria degli abitanti coinvolti. Così le persone hanno scoperto di essere state esposte per anni a queste sostanze, e di averle accumulate nel corpo. I risultati delle loro analisi parlano chiaro: livelli di Pfas nel sangue nettamente superiori al normale.
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“Il territorio è stato diviso in due – riprende Zanni –. La cosiddetta ‘zona rossa’, dove sono stati rilevati nella popolazione valori maggiori di Pfas nel sangue, e le cosiddette ‘zone arancio’, quelle più vicine alla fabbrica, dove l’inquinamento propagandosi verso sud non è riuscito ad arrivare in profondità. Gli acquedotti pescano in profondità e quindi le loro acque non sono ancora contaminate. Ma dal nostro punto vista e da quello dei comitati di cittadini che in questi anni si sono formati e con cui collaboriamo, non ha alcun senso dividere gli abitanti in zone rosse e arancio, poiché i Pfas, ormai lo sappiamo molto bene, fanno male alla salute. Chiediamo provvedimenti che riguardino l’insieme della popolazione esposta”.
Il territorioFare i conti con il disastro
Patrizia Pallara
La Miteni sapeva
Oggi è noto che la Miteni fosse consapevole della situazione almeno dal 1990. Una relazione del Nucleo operativo ecologico dei carabinieri di Treviso del 2017 riporta che la Mitshubishi, che deteneva il 51 per cento dell’azienda (il restate era in mano alla Enichem) aveva commissionato a più riprese indagini ambientali nello stabilimento, scoprendo che il terreno era impregnato di inquinanti. Nel 2004 la proprietà aveva anche fatto installare una barriera idraulica, un sistema che pompava e filtrava l’acqua dalla falda, risultato poi insufficiente. Avrebbe dovuto comunicare alle autorità sanitarie quello che indagini avevano rivelato, ma non lo fece. E quando da una valutazione dei costi per lo smantellamento e la bonifica del sito risultò una cifra che si aggirava sui 18 milioni di euro, nel 2009 pensò bene di vendere la fabbrica al prezzo simbolico di 1 euro alla lussemburghese Icig.
«Le aziende sfruttano i territori, spolpano i lavoratori e scappano. È inaccettabile»
“Qual è la situazione reale di inquinamento di questo territorio si scoprirà solo quando si andrà a scavare – dice Giuliano Ezzelini Storti, segretario generale Filctem di Vicenza –. Il dato vero è questo: quando non si riesce ad obbligare le aziende a pagare i danni che hanno provocato, perché poi falliscono, come in questo e in altri casi in Italia, una parte dei danni viene scaricata sulla collettività. Noi diciamo che non ci può essere più nessuno che inquina e poi scappa: le aziende sfruttano i territori, si arricchiscono finché possono, spolpano i lavoratori e poi il costo lo devono pagare i cittadini. E questo è profondamente inaccettabile, profondamente ingiusto”.
I lavoratori della Miteni negli ultimi due anni di vita della fabbrica prima della chiusura avevano chiesto la bonifica e la riconversione industriale, non far confliggere ambiente con lavoro. Hanno messo in campo azioni di protesta innovative, ma con grande senso di responsabilità hanno mantenuto un minimo di sicurezza dell’impianto. “Ma quando la proprietà capisce che non può più ricattare i lavoratori, che non ci sono più spazi di manovra, porta i libri in tribunale – racconta Ezzelini Storti –. Il fatto più emblematico è quello in cui l’amministratore delegato scappa dalla fabbrica con i borsoni. Mentre la manodopera e la rappresentanza sindacale interna vuole coniugare le esigenze di territorio e quelle del lavoro, l’azienda decide di non assumersi la responsabilità di ciò che ha fatto”. A cercare di inchiodare tutti i dirigenti della Miteni, alcuni di Mitsubishi e dell’Icig è il processo che li vede imputati per disastro ambientale e avvelenamento delle acque, a cui la Cgil di Vicenza è stata ammessa come parte civile.
Km 0Alimenti contaminati, la soluzione c'è
Patrizia Pallara
Il podcast con l'intervista a Marzia Albiero, coordinatrice della rete Gas
In attesa della giustizia, i cittadini si organizzano come possono per trovare soluzioni e tutelare la salute. Oltre al problema dell’acqua c’è anche quello degli alimenti: uova, pesce, muscoli del suino e del bovino, sono contaminati. “I dati sull’agricoltura stanno emergendo adesso – ci racconta Marzia Albiero, coordinatrice della rete dei gruppi di acquisto solidale nella provincia di Vicenza –. Se per far crescere un radicchio lo devo irrigare d’acqua, è chiaro che poi è inquinato. Però noi chiediamo di perseverare con gli acquisti a chilometro zero, di supportare agricoltori e allevatori che si sono accorti delle contaminazione prima ancora delle istituzioni e non hanno atteso gli aiuti dall’alto, ma hanno cambiato le fonti irrigue o le coltivazioni sostituendole con altre che non necessitano di tanta acqua. Sono loro i custodi della terra”.
L’unica certezza che gli abitanti hanno è il tempo. Ogni 3, 4 o 5 anni, a seconda della molecola, la concentrazione di inquinanti si dimezza. A spanne ci vorrà un secolo per avere un’acqua di nuovo pulita, a patto di eliminare alla radice la fonte dell’inquinamento. Cosa che però non è stata ancora fatta. “In questo momento – conclude Zanni – sono in corso lavori all’interno dello stabilimento per completare lo smontaggio degli impianti e per mettere in sicurezza il sito in attesa della bonifica. I comitati dei cittadini, i sindacati, la Cgil in particolare, chiedono che al più presto la Regione convochi la proprietà, costruisca un progetto per pianificare la bonifica del sito, senza la quale ogni volta che piove un po’ più del normale, la falda si alza, si imbeve di Pfas, e si avvelena ulteriormente”.
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