Giovanna Badalassi è una esperta di economia di genere e fondatrice del blog www.ladynomics.it, impegnata da tempo sui temi delle pari opportunità, ascoltata recentemente in Parlamento nel ciclo di audizioni sul Pnrr.

Che cosa è l’economia della cura?

È una prospettiva economica che propone di riconoscere il contributo che la cura non retribuita offre al sistema, facendo così emergere la riproduzione sociale nascosta sulla quale poggia l’economia di mercato.

I servizi di cura sono pochi, e chi vi opera è quasi sempre donna. Che cosa significa dare anche al lavoro di cura retribuito la dignità di un fattore produttivo?

Significa riconoscere che il lavoro di cura, retribuito e non, contribuisce in modo considerevole al sistema produttivo e sociale, producendo benessere. Confrontando i differenziali retributivi si scopre invece che il mondo della finanza, ad esempio, tra quelli con il maggiore riconoscimento sociale, ha un costo orario medio attorno ai 30 euro, una prevalente occupazione maschile e il gap di genere più elevato. Al contrario, i mestieri che sono più vicini ai lavori di cura, alla salute e a tutto ciò che riguarda le persone, sono considerati meno prestigiosi e hanno il costo orario più basso, tra i 10 e i 13 euro, un’occupazione soprattutto femminile e anche un basso gap di genere. Insomma la nostra economia è costruita in modo da considerare accessoria ogni attività economica che si occupa della persona rispetto alla produzione dei beni.

Servizi e welfare. Quale deve essere il ruolo del pubblico, dello Stato?

In Italia esiste un sistema di welfare familista, dove la cura viene soprattutto svolta e gestita dalle donne nell’ambito della “famiglia”. Quando la famiglia ha bisogno di aiuto si ricorre spesso a figure femminili sostitutive quali le assistenti familiari (ciò lavoro privato e spesso in nero). Questo sistema si presta ad una visione nascosta e sommersa del valore del lavoro di cura, con inevitabili ripercussioni anche sul tasso di occupazione femminile. Basti pensare alla differenza dell’Italia rispetto ai paesi del Nord Europa, che hanno i tassi di occupazione femminile più elevati proprio perché il lavoro di cura è svolto grazie ad un sostanzioso welfare pubblico finanziato da un sistema fiscale regolare. In Italia, invece, il ruolo dello Stato negli ultimi 25 anni si è sempre più ridotto in tutti gli ambiti, penalizzando in modo significativo i servizi socio-assistenziali – ad esempio gli asili nido o i servizi per anziane e anziani - e caricando sempre di più le famiglie del lavoro di cura. Si è trattato di un arretramento dovuto anche ad una scarsità di risorse legata ad un’evasione fiscale altissima che oramai “sopportiamo” come inevitabile, quasi normale. Questa dinamica distorta spiega il problema del riconoscimento del valore di cura, che non solo presuppone una diversa gerarchia di priorità, anteponendo il benessere delle persone al profitto, ma necessita anche di un sistema in cui tutti pagano le tasse dovute di modo che lo Stato abbia le risorse per restituire cura e benessere attraverso i servizi.

L’Italia e l’Europa devono riscostruire la propria economia. Da dove cominciare?

Intanto occorre trovare un diverso punto di equilibrio tra ruolo dello Stato e quello del mercato. Che non significa che lo Stato deve entrare di più nell’economia, ma che deve porsi in modo più efficace ed efficiente come soggetto regolatore e mediatore tra mercato e società, occupandosi maggiormente del benessere e della cura dei cittadini e delle cittadine. Non aver svolto questo ruolo negli ultimi decenni ha portato all’aumento esponenziale delle diseguaglianze. La crisi del Covid19 le ha, se possibile, esacerbate ulteriormente, penalizzando soprattutto le donne perché si è trattato di una crisi di cura, sanitaria e sociale, prima ancora che una crisi economica. Si potrà quindi riavviare la crescita solo se si investirà nelle infrastrutture sociali, riequilibrando la dicotomia tra benessere e profitto, riducendo così le diseguaglianze e creando occupazione femminile.
Questo investimento in servizi di cura potrà inoltre liberare il tempo per altre donne che potranno a loro volta entrare nel mercato del lavoro, con ulteriori benefici in termini occupazionali e di Pil. Si tratta insomma di una dinamica virtuosa, senza controindicazioni, alla quale il Paese non può assolutamente rinunciare.