Epifanio Li Puma viene freddato dai colpi di fucile provenienti da due uomini a cavallo mentre lavora il suo pezzo di terra davanti al figlio. È il 2 marzo 1948 e quell'omicidio efferato va ad aggiungersi all’ampio corollario di morti nell’ambito del movimento operaio e contadino per mano della criminalità organizzata nel secondo dopoguerra siciliano. Scriverà Girolamo Li Causi sulle colonne de l’Unità a pochi giorni dal suo assassinio, il 17 marzo 1948, esattamente una settimana dopo il rapimento di Placido Rizzotto:

Il 2 marzo a Petralia Soprana in provincia di Palermo, grosso comune al centro di una decina di borghi contadini, disseminati in una zona in cui impera sovrano il latifondo, mentre zappava il suo spezzone di terra, presente il figlio undicenne, veniva trucidato il vecchio compagno Epifanio Li Puma capo contadino che da 30 anni lottava contro i baroni, contro gli Sgadari, i Mocciari, i Pottino. Il delitto per ammissione stessa delle autorità, è politico: tutti sanno chi lo ha premeditato, organizzato ed eseguito. Anche la polizia lo sa. Li Puma veniva freddamente atterrato da due briganti della banda di Dino, banda che vive grazie alla complicità dei baroni che le assicurano ospitalità, sussistenza, protezione. Niente giustifica l’efferato delitto. Li Puma, padre di nove figli, contadino poverissimo aveva trascorso tutta la sua esistenza lavorando la terra, dirigendo la lega contadina di Petralia, organizzando la cooperativa “La Madre terra” che da tre anni è in lotta con i signori feudali per il possesso meno precario della terra, per più umane condizioni di esistenza. Dal Marchese proprietario, al campiere che indica ai banditi la vittima perché non sbaglino, ai sicari rotti ad ogni delitto la catena è limpida. Ma la polizia come già per altre decine di contadini capilega trucidati in questi ultimi mesi non vuole scoprire i mandanti e archivia le pratiche (…).

Gli atti terroristici contro il movimento contadino e i suoi dirigenti cominciano con l’uccisione di Andrea Raia il 5 agosto 1944, cui fa seguito - poco più di un mese dopo, il 16 settembre - l’attentato proprio a Girolamo Li Causi, segretario regionale del Pci, durante un comizio a Villalba, feudo di don Calò Vizzini. “Fu quello il mio primo bagno nella mafia del feudo, la mafia che aveva le terre in affitto”, ricorderà anni dopo Emanuele Macaluso, quel giorno presente. 

Così Eugenio Scalfari in un celebre articolo de L’Espresso ricostruirà nel 1956 il clima di quel pomeriggio: “Gli uomini del camion avrebbero voluto cominciare subito, ma non avevano messo in conto il suono delle campane: l’arciprete di Villalba, fratello di don Calogero, cominciò a suonare a distesa: impossibile parlare. Passò quasi un’ora: gli uomini aspettavano nervosi, le campane assordavano la piazza, don Calogero fumava. Finalmente il suono finì e il comizio poté cominciare”.

Segretario regionale del Partito, deputato all’Assemblea costituente, senatore e vicepresidente della prima Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso, Girolamo Li Causi farà della lotta alla mafia il tratto distintivo del suo impegno politico e istituzionale. La vicenda della strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1° maggio 1947 per opera della banda di Salvatore Giuliano, è da questo punto di vista emblematica. Li Causi sarà probabilmente l’uomo politico più direttamente impegnato sulla strage di Portella, denunciandola all’opinione pubblica e seguendone gli sviluppi.

Il numero uno del Pci isolano avanzerà durissime accuse anche alle forze di polizia - denunciando i loro legami con mafiosi e separatisti - e al ministro Mario Scelba, più volte accusato di essere direttamente implicato nella vicenda. “Onorevoli colleghi, non è la prima volta che ci occupiamo della Sicilia e credo che non sarà nemmeno l’ultima”, diceva all’Assemblea costituente nella seduta del 15 luglio 1947. Aveva ragione.

“Non sono in molti a ricordarlo - raccontava Emanuele Macaluso, in una bella intervista in occasione del 70° anniversario di Portella della Ginestra - ma dall’inizio del 1947 e fino a prima dell’attentato erano stati ammazzati già tre sindacalisti: tutti uomini di valore, dirigenti e militanti del calibro di Accursio Miraglia, Pietro Macchiarella, Nunzio Sansone. Anche se va detto che le intimidazioni, quando non addirittura gli atti terroristici contro il movimento sindacale e i suoi leader erano cominciati nell’immediato dopoguerra, con l’attentato del 16 settembre ’44 a Girolamo Li Causi, all’epoca segretario del Pci siciliano, avvenuto durante un comizio a Villalba. Quel giorno io mi salvai per miracolo: ero al suo fianco e ricordo per filo e per segno gli attimi che fecero seguito alla sparatoria scatenata dagli uomini di don Calogero Vizzini, dove risultarono ferite 14 persone e in occasione della quale lo stesso Li Causi fu colpito a una gamba, un fatto che lo renderà claudicante per il resto della sua vita. A cadere sotto i colpi della mafia erano soprattutto sindacalisti della Cgil… Esclusivamente della Cgil! Unitaria fino al 1948, della Cgil post-scissione in seguito. Andrea Raja, Gaetano Guarino, Nicolò Azoti, erano tutti sindacalisti della Cgil e, in particolare, dirigenti del movimento contadino e bracciantile. E del resto furono compiuti soprattutto tra i capi delle lotte per la terra i primi omicidi della criminalità organizzata agli inizi del Novecento, da Luciano Nicoletti a Bernardino Verro, e nel tragico marzo-aprile del 1948, con gli efferati assassini di Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi”. “Quale era il nostro convincimento? - affermava Macaluso - Che era un prezzo da pagare…”.

Diceva Emanuele proprio a Portella nel maggio del 2019: “Non volevo mancare a quest’ultimo appuntamento della mia vita. Questa sarà forse la mia ultima presenza qui (…). Volevo tornare qui oggi dove sono cresciuto politicamente. Non potevo mancare a questo appuntamento, volevo tornare qui, questi sono stati i momenti della mia formazione. Per me, che poi ho avuto tanti incarichi, la mia formazione politica, sociale e umana è legata agli anni in cui sono stato nel sindacato in cui ho potuto coltivare un rapporto umano con migliaia di lavoratori, contadini, metallurgici, operai, braccianti e zolfatari. Quando gli operai del cantiere scioperavano per 40 giorni e gli zolfatari per 60 giorni, pensate che io di notte potessi dormire? No, pensavo a quelle donne, a quegli uomini a quei bambini. Uno sciopero in quegli anni per me diventava un modo diverso di concepire il lavoro e la battaglia sindacale. E questo è stato. Ho diretto l’organizzazione del Pci, sono stato senatore, direttore de l’Unitá, ma la mia nascita come persona è qui”.

“Noi non dimenticheremo”, concludeva EM.MA. rivolgendosi ai compagni uccisi. Si è spento il faro, resta la scintilla e noi continueremo a non dimenticare. Continueremo a ricordare, a scrivere, a parlare dei nostri martiri, perché “fare memoria è un dovere che sentiamo di dover rendere a quanti sono stati uccisi per mano delle mafie, un impegno verso i familiari delle vittime, verso la società tutta, ma prima ancora verso le nostre coscienze di cittadini, di laici e di cristiani, di uomini e donne che vivono il proprio tempo senza rassegnazione”.