Il 1° marzo 1944 tanti, tantissimi lavoratori (secondo il ministero degli Interni 208.549, di cui 32.600 solo a Torino; secondo Leo Valiani, d’accordo anche Paolo Spriano, perlomeno 500.000 operai e impiegati) incrociano le braccia malgrado la repressione, la minaccia di licenziamento,  la paventata deportazione in Germania. Scioperano anche i tranvieri, i postelegrafonici, gli operai del Corriere della Sera.

Scriverà il 9 marzo 1944 il New York Times: “In fatto di dimostrazioni di massa non è avvenuto niente nell’Europa occupata che si possa paragonare con la rivolta degli operai italiani. È il punto culminante di una campagna di sabotaggio, di scioperi locali e di guerriglia che hanno avuto meno pubblicità del movimento di resistenza altrove perché Italia del Nord è stata tagliata fuori dal mondo esteriore. Ma è una prova impressionante, che gli italiani, disarmati come sono e sottoposti a una doppia schiavitù, combattono con coraggio e audacia quando hanno una causa per la quale combattere”.

Tra i protagonisti degli scioperi nel torinese anche una giovanissima Nella Marcellino che qualche anno fa raccontava a Rassegna Sindacale:

Tornai a Torino nel 1941. Avevo poco più di diciotto anni, il mio partito, il partito comunista, aveva chiesto ai giovani di rientrare in Italia. Mi offrii. A Parigi, Antonio Roasio, che era tra i dirigenti del centro estero del partito, mi 'istruì', mi diede una valigia con doppio fondo in cui c’erano soldi e documenti e mi incaricò di contattare Umberto Massola, inviato a ritessere le fila dell’organizzazione per l’Alta Italia, di cui si erano perse le tracce. Giunsi a Torino. Vi mancavo da quando a sei anni, nel 1929, ero espatriata clandestinamente in Francia, con mia madre, per raggiungere mio padre, condannato dal Tribunale speciale e ripartito oltralpe tre anni prima. Andai a vivere con la nonna e uno zio a Mirafiori, ma riuscii a rintracciare Massola, tra mille peripezie, solo diversi mesi dopo il mio arrivo. Ricordo ancora oggi la parola d’ordine che pronunciai per farmi riconoscere: Ti ho portato la bambola per Nanà. Feci vari lavori, l’ultimo dei quali al San Paolo di Torino, dove ero stata assunta grazie al mio diploma da ragioniera. Abbandonai quell’impiego all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943 …  ci vorrebbe un libro solo per descrivere l’altalena delle emozioni che provai. Comunque, un episodio lo voglio raccontare. Era il primo giorno di sciopero, il 1° marzo. Mi trovavo in centro, all’angolo tra Corso Vittorio Emanuele e Via S. Secondo, vicino alla stazione di Porta Nuova, e aspettavo un tram, credo fosse l’11. Dovevo andare dalle parti della Fiat Mirafiori. Per la precisione dovevo scendere prima di Mirafiori, su quello che oggi si chiama Corso Unione Sovietica, allora Corso Stupinigi, all’altezza di Corso Dante. Avevo con me dei fogli battuti a macchina, dovevo portarli in una casa perché fossero poi ciclostilati durante la notte: si trattava di volantini per lo sciopero. Il tram non arrivava. Ero combattuta tra due sentimenti. Se il tram non arriva, pensavo, vuol dire che è bloccato ai capolinea perché i tramvieri hanno cominciato a scioperare. Oppure, l’altro sentimento, vuol dire che il tram è bloccato al capolinea di Mirafiori perché gli operai sono usciti. E allora il tram non solo non scende, ma non sale - molti tratti di quella linea erano allora a binario unico, per cui prima passava un tram poi l’altro -. Finalmente arrivò: era una di quelle vecchie vetture aperte davanti e dietro in cui i posti a sedere consistevano in due panche l’una di fronte all’altra che correvano lungo i fianchi della carrozza. Potevano essere le 10.30, le 11 del mattino. Il tram era strapieno. La gente brontolava, ma non era ancora chiaro cosa stesse avvenendo. Io poi volevo capire se lo sciopero stava riuscendo, se le fabbriche avevano cominciato a muoversi. Avevo il cuore in gola: c’eravamo spesi molto per la preparazione e, se fosse fallito, sarebbe stato gravissimo. Mentre il tram andava avanti, cercavo di avvicinarmi all’uscita. Un po’ prima dell’Ospedale Mauriziano il tram girava, e lì il binario diventava unico. Il tramviere era pressato dalla gente, non riusciva neanche a manovrare, io gli ero finita praticamente addosso. Lui si indispettì: 'Insomma - urlò -, io così non riesco neanche a lavorare”. E io, facendo una cosa che non avrei mai dovuto fare, violando le più elementari regole cospirative: “Beh, lei proprio non dovrebbe lavorare! - risposi -. Gli altri scioperano, lei fa il crumiro, si vergogni!'. Ero furibonda. Il tramviere mi guardò esterrefatto e proseguì la manovra. Io continuai a insultarlo: 'Ma non ti vergogni - ero passata al tu -, i tuoi compagni scioperano e tu continui a lavorare!' 
Rimase interdetto. Si fece un gran silenzio, cominciai a pensare che forse avevo sbagliato. Il tramviere prese la curva e quando arrivò allo scambio per mettere la vettura sulla linea di Mirafiori lo oltrepassò, ostruì la linea, staccò la manetta e disse: “Ora basta”. E scese. La gente era tutta lì. Allibita. Allora io salii su una delle panche e cominciai il mio primo comizio in Italia. Tirai fuori l’elenco delle rivendicazioni, basta con i fascisti, basta con la guerra, bisogna farla finita. La gente mi guardava, alcuni visibilmente soddisfatti, altri impauriti, fatto sta che cominciarono a scendere e dopo alcuni minuti il tram era vuoto. Il tramviere era sparito con la manovella e la linea per Mirafiori era bloccata. A quel punto cominciai a pensare che bastava che ci fossero due fascisti perché smettessi di fare la guerra di liberazione. Scesi dal tram. Erano rimaste meno di dieci persone, tra cui un signore elegante, che mi si avvicinò dicendo: “Signorina, vada via, vada via subito, se ne vada per carità!”. Lo guardai male: “Si occupi dei fatti suoi”, gli risposi. Poi di corsa attraversai Viale Stupinigi, non c’era nessuno, andai lungo la ferrovia, lì c’era una via molto appartata, c’è ancora, feci una corsa, mi voltai, sempre nessuno, andai ancora avanti, entrai in un portone, guardai a destra e sinistra, nessuno. Dopo un po’ ritornai indietro, passai alla sinistra del mio tram, che era sempre lì, fermo, intorno il deserto, e riuscii a raggiungere le case dei ferrovieri vicino Corso Dante. Qui, finalmente, consegnai il mio materiale. 
Mi tenni l’avventura per me: non dissi nulla né ad Arturo Colombi né a Giovanni Nicola né a Francesco Scotti, che dirigevano in quel momento il triumvirato insurrezionale. Stetti zitta, ne parlai solo dopo la guerra di Liberazione: se l’avessero saputo, mi avrebbero subito mandata a Milano o in qualche altra città. Fu una cosa in parte impulsiva, in parte dovuta al fatto che temevo davvero che lo sciopero non riuscisse. Invece ebbe uno straordinario successo”.

L’esito degli scioperi, sotto il profilo strettamente economico, non è in realtà completamente positivo: le rivendicazioni economiche non vengono accolte e la repressione è durissima (l’ambasciatore Rahn riceve personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti. Anche se il provvedimento non sarà eseguito nella misura indicata per "difficoltà tecniche inerenti ai trasporti" e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica, si calcola che circa 1.200 operai saranno deportati nei campi di lavoro o in quello di sterminio di Mauthausen). 

Ma l’impatto politico è enorme. Scriveva l’Unità il 10 marzo 1944:  “Le notizie del grande sciopero generale sono risuonate come una sveglia, come un grido di guerra in tutta l’Italia occupata … I lavoratori italiani non rientreranno nelle fabbriche domani. Si sbaglierebbe di grosso chi credesse che hanno capito che è inutile lottare, che contro i tedeschi non è possibile farcela. Proprio il contrario; i lavoratori hanno imparato a conoscere la loro forza, la lotta di quando sono compatti e decisi, hanno capito che non basta più lo sciopero pacifico, per difendere la propria vita bisogna andare oltre. Tornano nelle fabbriche a continuare la lotta, a preparare l’insurrezione nazionale, l’azione armata per dare il colpo decisivo”.

“Lo sciopero generale politico rivendicativo del 1-8 marzo assume un’importanza e un significato nazionali e internazionali di gran lunga superiori agli obiettivi immediati che esso si poneva - scriveva La nostra Lotta - indica la strada da seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie, in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta: essa s’iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di domani”.

Diceva del resto pochi mesi prima - nel novembre del 1943 - un giovanissimo Bruno Trentin: “L’Italia finalmente si risveglia! Su tutta la superficie della penisola occupata dagli invasori tedeschi e dai loro degni sicari fascisti, il popolo italiano, quello del 1848, quello di Garibaldi e di Manin è in piedi e lotta .... Dopo aver dormito vent’anni, questo popolo martire fa sentire all’immondo aguzzino in camicia nera tutte le terribili conseguenze del suo risveglio. È in piedi oramai. Lo si era creduto morto, servitore, vile e codardo, e invece è là!”.