Quando si dice il posto sbagliato al momento sbagliato. È successo questo, in estrema sintesi, a un casellante della tratta autostradale Livorno Sestri Levante che nella notte dell’8 marzo 2020 si trovò a stretto contatto con molti lombardi fuggiti dalla zona rossa appena annunciata con l’intento di raggiungere le seconde case in Versilia. Roberto Corsini, di turno al casello di Livorno, notò un flusso anomalo per intensità e per provenienza. Tutti quei viaggiatori notturni con accento e targa della provincia lombarda, che cosa ci facevano lì? E mentre ci rifletteva, continuava a maneggiare soldi e carte di credito per il pagamento del pedaggio, senza dispositivi di protezione individuale. Oggi sembra impossibile, ma allora eravamo al ground zero della pandemia, la consapevolezza era ancora poco diffusa. Fu così che Roberto, colto da una febbre altissima pochi giorni dopo, risultò essere uno dei primi casi di covid del territorio. Un calvario il suo, come racconta nel video, durato mesi di lontananza dai figli piccoli e dai genitori anziani. "Non potete immaginare il dolore che ho visto nei 10 giorni di ricovero all'ospedale e quanto è stata dura poi, una volta uscito, restare in isolamento e fare tutto da solo".

“È stato uno dei primi a contattarci, appena uscito dall’ospedale – ci racconta Maura Bonistalli, l’operatrice dell’Inca Cgil di Pisa che ha seguito la sua pratica –. Ci chiamò al telefono perché allora facevamo solo sportello virtuale”. La situazione non era facile. Da poco era uscita la prima circolare Inail, ma molti datori di lavoro, a cominciare dalla Salt, la società che gestisce il tronco autostradale ligure toscano, aveva riconosciuto a Roberto la malattia senza presentare denuncia all’Inail".

“Anche noi eravamo impreparati. A lui, rimasto uno dei pochi della prima ondata a rivolgersi ai nostri uffici, i medici dell’ospedale avevano detto che l’aver scambiato soldi e carte di credito con gli automobilisti poteva essere stata la causa del contagio. Quindi ho presentato la denuncia di infortunio, il 15 di aprile. Inoltrando via mail all’istituto la dichiarazione in cui Roberto diceva di essere stato in servizio la notte tra il 7 e l’8 marzo, che a casa sua non c’erano stati familiari positivi, in un contesto come quello regionale in cui i casi di quelle settimane erano pochissimi. Il 30 aprile l’Inail ha respinto la richiesta, negando il nesso tra contagio e lavoro”. A quel punto, però, Maura non si arrende e invita Roberto a farsi visitare dal medico dell’Inca. “La dottoressa confermò l’esistenza di tutti i presupposti rispetto alla richiesta di infortunio e ci suggerì di chiedere alla società – tramite avvocato, poiché al lavoratore non l’hanno concesso – i tabulati riferiti a quella notte, con il flusso delle macchine e la provenienza”.

“Ci sono voluti mesi, ma alla fine, allegando questo questo documento, abbiamo presentato ricorso all’Inail e il 17 gennaio abbiamo ottenuto il riconoscimento di infortunio. In questo modo, intanto, i giorni di malattia non peseranno sul periodo di comporto. E poi per dieci anni potrà riaprire la sua pratica in caso di postumi”.

Buone pratiche, anche stavolta. Quelle che sta portando avanti l’Inca da allora, nonostante l’incertezza. Oggi che la seconda ondata ha diffuso il contagio anche in Toscana e nella provincia di Pisa, i casi gestiti dal patronato sono tantissimi. Anche grazie all’iniziativa di Maura che ci racconta come, punto di svolta, sia stato un corso dedicato alla formazione dei delegati e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza: “due giorni dopo ero sommersa dalle pratiche. È il valore dell’informazione e della formazione – ci dice soddisfatta Maura –. È bastato un corso online di una mattinata in cui i delegati hanno potuto fare domande e fare esempi di casi e a quel punto la strada si è aperta”.