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Nel labirinto del vaccino
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I ritardi nella consegna da parte delle big pharma mettono in crisi i piani dei governi e dell'Ue, ma fanno anche luce su una filiera complessa e su un sistema produttivo poco conosciuto. Intanto il nodo dei brevetti rallenta l'immunità e scatena le contraddizioni tra profitto delle aziende e salute dei cittadini
(coordinamento editoriale Maurizio Minnucci, foto Marco Merlini, grafiche Massimiliano Acerra)
La corsa al vaccino anti-covid che il mondo ha intrapreso dalla fine dello scorso anno si sta rivelando a dir poco accidentata. I ritardi registrati nella produzione e nella consegna hanno dato il via libera a una scia infinita di polemiche, accuse e controaccuse tra Unione europea, stati membri e grandi aziende farmaceutiche. Prima di Natale, Sanofi aveva già annunciato sei mesi di ritardo nel rilascio del suo siero, poi a gennaio è stata la volta di Pfizer-Biontech, che ha avuto intoppi nella produzione. Infine, è toccato ad AstraZeneca mettere nei guai l'Unione europea dimezzando le dosi promesse. Un percorso a ostacoli insomma, anche prevedibile, ma che ha messo in crisi il piano vaccinale disegnato dai governi degli stai membri. E che ha evidenziato tutti i nervi scoperti di una filiera, quella del farmaco, che per sua natura ha un andamento lento, macchinoso e qualche volta non proprio trasparente. Una filiera che però, in piena emergenza sanitaria, ha subito un'accelerata mai vista prima d'ora.
©Marco Merlini
Generalmente lo sviluppo di un vaccino necessita dai sette ai dieci anni. Per quello contro il Covid sono bastati meno di dieci mesi. Il tutto, ovviamente, grazie a una cascata di soldi pubblici. L'Europa ha messo in atto una negoziazione centrale per avere la prelazione su un numero altissimo di vaccini. I contratti sono stati firmati con 6 aziende e prevedono la prelazione su un miliardo e mezzo di fialette, più altri 700 milioni di dosi nel tempo.
GLI ANELLI DELLA CATENA
La storia del vaccino contro il Covid, quindi, rappresenta un'anomalia. Ma anche un'occasione, forse unica, per approfondire i rapporti sempre più agitati oggi tra proprietà intellettuale, legittimo profitto per le aziende e diritto alla cura di ogni singolo cittadino. Un vaccino, come un qualsiasi altro medicinale, prima di arrivare in farmacia deve infatti seguire un percorso obbligato, che però parte sempre da un laboratorio di ricerca. Dopo gli studi in vitro, il siero viene sottoposto a 4 fasi di sperimentazione, tre prima dell’autorizzazione, la quarta quando è già sul mercato. In Europa, le aziende devono dimostrare la sicurezza e l'efficacia di un prodotto alla European medicine agency (Ema). Solo dopo l'approvazione dell’Ema e l'ok della Commissione europea, può iniziare il processo di produzione sotto l'egida dell'Aifa, l'agenzia italiana del farmaco. Di solito ci vogliono anni. Così come diversi mesi servono per la fabbricazione di un qualsiasi prodotto biologico. Molto spesso le aziende devono anche adeguare o ricostruire da zero le proprie linee produttive. Questo vale ancor di più per i vaccini innovativi basati sulla molecola spike, come quelli oggi prodotti da Pfizer e Moderna. Poi ci sono le fasi successive: l'infialamento e lo stoccaggio. Passaggi particolarmente complessi, soprattutto per il siero Pfizer che dev'essere conservato a -70 gradi centigradi. Il trasporto rappresenta l'ultimo miglio. Oggi la logistica farmaceutica italiana è composta da circa 300 aziende autorizzate. Il flusso passa attraverso i grossisti e coinvolge l’80% del volume movimentato, mentre solo il 20% del traffico va direttamente dai depositari ai clienti.
@Fidia farmaceutici
Il più delle volte, tra l'altro, gli anelli di questa lunga catena non sono nelle stesse mani, né nello stesso Paese. Non è detto, insomma, che chi possegga il brevetto della molecola, sia lo stesso soggetto che mette in atto la sperimentazione clinica. E magari chi lo produce, non lo infiala, e forse non lo stocca. Sicuramente, poi, c'è qualcun altro che lo trasporta. La filiera farmaceutica, insomma, è costituita da molte realtà distinte, che spesso si trovano in luoghi diversi. Ad esempio, uno dei vaccini distribuiti in Europa è stato messo a punto dall’Università di Oxford, in collaborazione con l'Irbm di Pomezia, a un tiro di schioppo da Roma. Verrà prodotto da Astrazeneca in Inghilterra, ma infialato dalla Catalent di Anagni, in provincia di Frosinone. Lo stesso vale per il vaccino Moderna, che non ha altri prodotti commercializzati e non ha mai dovuto costruire canali di distribuzione per un medicinale. La maggior parte della produzione avviene tramite Lonza, un’impresa svizzera in partnership con altri grandi produttori. Recentemente Pfizer e BioNTech hanno invece annunciato accordi con compagnie esterne per velocizzare la produzione. Anche il cosiddetto vaccino “tutto made in Italy” che ha ricevuto finanziamenti dal Miur e dalla Regione Lazio è stato sviluppato dalla ReiThera di Castel Romano, che però è stata venduta tempo fa a Keires Ag, società finanziaria con sede a Basilea. L’Italia investirà altri 81 milioni di euro su questo siero, 11,7 saranno utilizzati per la produzione, attraverso l’ampliamento dello stabilimento di Castel Romano. Ma non è ancora dato sapere dove e come avverranno tutti gli altri passaggi.
IL FARMACO IN CONTO TERZI
Nella catena di produzione dei vaccini finora acquistati dall'Italia e dagli altri paesi dell'Unione, in effetti, l'industria farmaceutica italiana svolge un ruolo importante, ma il più delle volte non da protagonista. Di sicuro c'è che nessuna filiera, dagli studi in vitro alla distribuzione, risiede interamente in Italia. A relegare le aziende nostrane a una funzione spesso di puro confezionamento concorre, tra l'altro, la struttura stessa del nostro comparto farmaceutico. Secondo l'ultimo rapporto sugli indicatori di Farmindustria, il settore gode di ottima salute. Siamo i primi produttori dell'Unione europea con 283 imprese, 66.500 dipendenti, e un valore della produzione nel 2019 di 34 miliardi di euro. Ma a caratterizzare il farmaco italiano è sopratutto la massiccia presenza di capitali stranieri: il 58% del totale. E le esportazioni, che rappresentano addirittura il 96% della produzione. Una cifra che si è quasi raddoppiata negli ultimi 10 anni.
I vaccini, però, non sono il core business della farmaceutica italiana. Nel 2019 hanno rappresentato solo il 3,3% delle esportazioni totali. Il comparto, in realtà, sta puntando sempre più forte sul cosiddetto Cdmo (Contract Development and Manufacturing Organization). Si tratta di quelle aziende che sviluppano e producono farmaci “per conto” delle grandi multinazionali. La quota dei contoterzisti italiani sul valore della produzione complessiva europea di farmaci è addirittura pari al 29%, più di Germania e Francia. Il tutto vale oltre 2 miliardi di fatturato, una cifra che ci proietta al primo posto in Europa sul fronte occupazionale tra le aziende conto terzi, con circa 8 mila addetti.
L'Italia del farmaco, insomma, diventa sempre più ricca, produce più medicinali che vaccini, e li esporta quasi tutti. Ma, verrebbe da dire: è un lavoro da contoterzisti che ci mettono le braccia, mentre il cervello dei brevetti resta nelle mani delle multinazionali straniere. In realtà, secondo Farmindustria, il Cdmo rappresenta un fiore all'occhiello, una vera e propria eccellenza: “Un modello organizzativo largamente diffuso, che permette di esternalizzare la produzione e lo sviluppo di farmaci in fabbriche e laboratori dedicati dotati di ampie capacità operative”. Il rischio però, come ripete da vari territori la Filctem Cgil. è quello di lasciare in mano italiana solo i “pillolifici”, gli stabilimenti di puro confezionamento o di logistica, che possono essere delocalizzati da un momento all’altro. Se la ricerca di base tendenzialmente resta, infatti, la semplice manifattura è molto facile da traslocare. I pillolifici, insomma ,sono “stabilimenti con le rotelle”. È già successo, e sta succedendo ancora, in molti distretti e pure in altri settori.
Videoscheda: l'industria farmaceutica in numeri
Un esempio concreto è quello che sta succedendo alla Sanofi di Anagni. Nello stabilimento in provincia di Frosinone si sarebbero dovute produrre milioni di dosi del vaccino sviluppato dalla Big Pharma francese insieme alla britannica Gsk. Erano già state adattate le linee produttive, e si stava iniziando a discutere con il sindacato per la stabilizzazione di un buon numero di operai. Nello scorso dicembre, però, è arrivata la doccia fredda: i cattivi risultati ottenuti nella sperimentazione sull'uomo, hanno portato a un ritardo di mesi nella produzione. Il siero, quindi, potrebbe essere pronto soltanto alla fine del 2021. E, al momento, non è dato sapere se e dove verrà prodotto. Una provetta andata a male in un laboratorio francese, insomma, oggi tiene appesi a un filo decine e decine di operai di uno stabilimento ciociaro.
CONVERGENZE PARALLELE
Di fronte agli intoppi che si sono registrati nella produzione e nell'approvvigionamento dei vaccini in Europa e alle forti tensioni che stanno creando, alcune delle multinazionali coinvolte cercano di correre ai ripari. Uno degli interventi messi in campo è rappresentato da possibili accordi che rendano disponili le linee produttive di altre imprese non ancora coinvolte. Sanofi, ad esempio, dopo lo stop al suo vaccino ha recentemente offerto le sue fabbriche per produrre il siero americano Pfizer. La tedesca BioNTech, che lo ha sviluppato, avrà quindi accesso agli stabilimenti della Sanofi di Francoforte per fornire oltre 125 milioni di dosi destinate ai paesi Ue. Le prime fialette arriveranno in estate.
©Marco Merlini
Convenzioni come queste hanno subito ricevuto la benedizione degli industriali italiani. “La collaborazione tra contoterzisti e aziende detentrici del farmaco in Italia una prassi normalissima – dice Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria -. Il problema è che chi deve produrre vaccini deve avere delle macchine compatibili e non sono molto comuni. L'importante è che si trovino aziende che possano dare in questo momento. Occorre adeguare gli impianti produttivi. Il vaccino contro il Covid è arrivato miracolosamente in pochi mesi, adesso la seconda sfida è averne in grande quantità, e le aziende ce la stanno mettendo tutta”.
L'intervistaFarmindustria, i brevetti e la pandemia
Carlo Ruggiero
Intervista a Massimo Saccabarozzi, presidente Farmindustria
Farmindustria, ovviamente, tira acqua al suo mulino. In queste alleanze, infatti, la farmaceutica italiana, forte della sua esperienza contoterzista, potrebbe svolgere un ruolo significativo. Ne sono convinti anche alla Fidia Farmaceutici, azienda di Abano Terme che da trent'anni produce farmaci e soprattutto vaccini per conto terzi. “Di fronte ad esigenze di salute pubblica e sicurezza nazionale, - dicono dalla Fidia - confermiamo la nostra disponibilità, già comunicata alle autorità competenti, a partecipare alla produzione di vaccini, nel rispetto degli accordi in essere con gli attuali partner”. L’auspicio dell'azienda è che, “a fronte del bene comune che resta la salute di tutti, anche altre aziende italiane con adeguato know-how diano la propria disponibilità a partecipare ad un programma di più ampio respiro: prevedere, all’interno del Piano pandemico nazionale, un coinvolgimento strutturato per la produzione di quanto necessario a contrastare e gestire le emergenze sanitarie e garantire così al Paese una maggiore autonomia sulle scorte e programmazione nel lungo periodo”.
«Altre aziende diano disponibilità per il bene comune»
Una disponibilità simile è arrivata anche dal fronte sindacale. A Siena, la Cgil chiede a gran voce che il distretto farmaceutico locale possa partecipare allo “sforzo globale” della produzione del vaccino anti-covid, domandandosi perché l’Italia, “che produce l’11% dei farmaci del mondo, si sia autoesclusa dalla produzioni delle dosi”. Secondo Marco Goracci, segretario generale della Filctem senese, bisognerebbe puntare sullo stabilimento Gsk di Rosia (tre linee produttive e oltre 2.000 dipendenti a 23 chilometri dal capoluogo): “Ha un potenziale enorme in termini produttivi, soprattutto nel settore dell’infialamento e del confezionamento. Trasferire da un’altra azienda agli stabilimenti un prodotto, o parte del processo, prevede delle procedure che normalmente impiegherebbero molti mesi”. Ma, dice la Filctem, se è stato realizzato un vaccino in un anno “si può ragionevolmente pensare che si possa fare anche altro in brevissimo tempo”.
L'intervistaUn Paese senza ricerca
Carlo Ruggiero
Intervista ad Aldo Zago, Filctem Cgil
A interessare il sindacato è soprattutto la ricaduta che un'operazione del genere potrebbe sul comparto locale. In questo modo, il territorio senese e quello toscano, con il loro indotto, “registrerebbero significativi incrementi occupazionali”. Qualora Gsk accettasse di fare la sua parte, dice il sindacato, “infialando, per esempio, il vaccino Pfizer (che come è noto contiene dalle cinque alle sei dosi per flacone) in un solo mese potrebbe consegnare l’equivalente di 15 milioni di vaccini contro il corona virus”. Uno scenario ripreso anche dal Presidente di Confindustria Carlo Bonomi nel corso di Mezz'ora in più su RaiTre. A Siena, però, la Gsk continua a nicchiare, parlando di “tecnologie incompatibili”.
SEGRETI INDUSTRIALI
Insomma, con l'aumentare del ritardo, quello dell'implemento di pezzi di filiera è un tema che sta guadagnando sempre più eco nel dibattito pubblico. Ma mettere in mano a un'azienda concorrente una linea produttiva, dati o conoscenze è un rischio che non tutti vogliono correre. Diverse big pharma hanno infatti detto che durante la pandemia non trarranno profitto. Ma il brevetto in farmaceutica è solo una parte di un processo produttivo lungo e articolato. Nella filiera ci sono molti segreti industriali, che riguardano le materie prime, i macchinari, i reagenti, e conoscenze, dati e protocolli protetti da copyright. Tanto che Farmindustria, come conferma il suo presidente Scaccabarozzi non crede che "liberalizzare i vaccini possa essere una soluzione. Bastano accordi tra privati".
In realtà, una proposta per un'elaborazione di una filiera integrata del farmaco tutta italiana già esiste. Non riguarda direttamente i vaccini, ma traccia comunque un via percorribile. E' il progetto del cluster tecnologico nazionale Scienze della vita Alisei, che proprio con Farmindustria, Egualia (farmaci generici) e Federchimica Aschimfarma (produzione di principi attivi), ha presentato un piano di ampliamento e modernizzazione degli impianti di produzione di circa 60 aziende italiane sulla base della mappatura delle loro capacità produttive. L'obiettivo è sostanzialmente riportare intere filiere nel nostro paese, nel quadro del Piano nazionale di ripresa e resilienza, attraverso la conversione degli impianti. La parola d'ordine è inglese: reshoring (il fenomeno del rientro a casa di aziende che in precedenza avevano delocalizzato ndr), ma a si può tranquillamente tradurre in: “autarchia farmaceutica”. Da contrapporre alla dipendenza dalle economie orientali sempre crescente nel comparto.
Un laboratorio di ricerca ©Marco Merlini
Anche nel caso si raggiungesse davvero l'obiettivo di una filiera autarchica, però, per vaccini e anticorpi monoclonali contro il covid il nodo da sciogliere resterebbe comunque quello della proprietà intellettuale. Secondo Farmindustria, in questo momento, “liberare i brevetti non è la soluzione per produrre più vaccini, perché la tutela della proprietà intellettuale serve proprio a garantire la ricerca”. Lo ha ripetuto il presidente Scaccabarozzi in diverse occasioni. Secondo l'ad di Fidia Farmaceutici Carlo Pizzoccaro, invece, il motivo per cui le multinazionali stentano a condividere i progetti e le produzioni sta proprio nel fatto che “vogliono tenere il know-how di vaccini così innovativi al loro interno, e non terzializzarlo. Penso che questo sia il problema più grosso”. Lo ha detto in Tv, a Tagatà, su La7.
Il dibattito è aperto, soprattutto per garantire una diffusione dei vaccini che sia davvero globale, e che coinvolga anche i paesi a basso reddito. Su questo fronte, Cgil, Cisl e Uil, si sono fatti parte attiva del comitato promotore di un'Iniziativa dei cittadini europei (Ice) promossa da autorevoli personalità di vari Paesi e autorizzata dalla Commissione europea. L'obiettivo è raccogliere un milione di firme online, di cui 180 mila in Italia, per chiedere che “l'accesso a vaccini e cure anti-pandemiche sia gratuito e garantito a tutti, a livello globale, che vi siano trasparenza e controllo sul denaro pubblico utilizzato per sviluppare le tecnologie sanitarie e nessun profitto delle aziende farmaceutiche a scapito della salute delle persone”.
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Roberta Lisi
Il nodo della proprietà intellettuale, in effetti, non si pone esclusivamente per la diffusione nei paesi poveri, come dimostrano alcuni studi, ma anche nella ricca Europa. “Di fronte a un'emergenza sanitaria è prevista dai trattati internazionali la possibilità di derogare ai brevetti, per esempio attraverso la cosiddetta licenza obbligatoria, con la possibilità di produzione del vaccino da parte di altre aziende. Questo potrebbe aumentare il numero di dosi prodotte e diminuire il costo del vaccino”, ci spiega Antonio Clavenna, responsabile del Dipartimento di salute pubblica, dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. La diminuzione del prezzo dei vaccini può infatti determinare “un aumento delle dosi prodotte e dalla disponibilità di vaccini che non richiedono il mantenimento della catena del freddo per la distribuzione”.
«Si rischiano disparità nel diritto alla cura»
Oggi più che mai, continua Clavenna, “il rischio che ci siano disparità nel diritto alla cura dovute alla tutela della proprietà intellettuale è molto concreto, in particolare per nuove terapie che possono avere un costo più elevato, come gli anticorpi monoclonali”. “Gli strumenti per una sospensione della tutela brevettuale esistono - conclude -, ma non significa che sia semplice metterli in atto”. La disfida dei vaccini, insomma, pare appena iniziata. E' un enigma complesso, che pone questioni spinose sul rapporto tra Stati e potentati economici, tra rendite di posizione e vantaggi geopolitici, tra regole della concorrenza e accordi spesso al ribasso per governi e istituzioni. Una manciata dei tanti nervi scoperti della nostra società che in pochi mesi la pandemia ha portato a galla, forse una volta per tutte.
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Poco lontano da Roma, a Pomezia e dintorni, si stanno sviluppando tre sieri e un anticorpo contro il covid. Viaggio in un territorio che ha subito una crisi profonda, ma che oggi potrebbe sfruttare questa opportunità per ripensare il suo futuro
(coordinamento editoriale Maurizio Minnucci, foto Marco Merlini, grafiche Massimiliano Acerra)
A un tiro di schioppo da Roma, tra i capannoni lasciati vuoti da una crisi feroce, è nata una piccola Silicon Valley biotech. Tra Pomezia e Castel Romano, verso la costa, alcune aziende private stanno sviluppando tre distinti vaccini contro il Covid. Alla Irbm si lavora speditamente, insieme all’istituto Jenner di Oxford, al vaccino prodotto dal colosso inglese AstraZeneca. Poco più in là, alla ReiThera, è in fase di studio un candidato vaccino italiano, nato in collaborazione con l’Istituto Spallanzani di Roma, che ha ricevuto finanziamenti dal Miur e dalla Regione Lazio. Alla Takis, insieme all’Università di Milano-Bicocca, è poi in fase di sperimentazione un altro vaccino che verrà prodotto da Rottapharm Biotech. Nello stabilimento Menarini, invece, si cerca addirittura una cura. Si sta testando un anticorpo monoclonale che, nelle speranze di ognuno, potrà sconfiggere definitivamente il coronavirus. Ma non è tutto. Un po’ più a sud, ad Anagni, in provincia di Frosinone, verrà (forse) prodotto il candidato vaccino Sanofi-Gsk, mentre in uno stabilimento poco lontano, alla Catalent, a breve saranno fabbricate milioni di fialette per contenere il siero AstraZeneca.
Reportage Dove nasce il vaccino
Carlo Ruggiero
È un fiorire di studi e produzioni, insomma, a dire il vero un po’ inaspettato, ma che permette al Lazio di ritagliarsi un ruolo nella battaglia mondiale dei vaccini che da mesi si sta consumando sullo sfondo della pandemia. Tutto questo, però, si sta avverando in due zone industriali che hanno subito un fenomeno di accentuata deindustrializzazione e che sono tuttora in grande difficoltà. Lo dimostra la lunga teoria di stabilimenti sbeccati, orfani di lavoratori, che si susseguono senza soluzione di continuità lungo le arterie principali della regione. “Per noi la ricerca che si sta svolgendo in queste aziende è motivo di grande orgoglio - ci racconta Walter Cassoni, segretario generale della Filctem Roma sud, Pomezia, Castelli, davanti al grande stabilimento della Menarini Biotech di Pomezia -. Anche perché il nostro è da sempre un importante polo chimico-farmaceutico importante. Il problema è che, a parte Menarini, AlfaSigma e poche altre, le imprese farmaceutiche di eccellenza sono ormai tutte in mani straniere. La ricerca, che è il cuore pulsante dell’industria farmaceutica, oggi si fa sostanzialmente all'estero".
«Per noi è un orgoglio ma l'eccellenza è quasi tutta in mani straniere»
Ricercatori in fuga
In effetti, anche le società che stanno portando avanti studi e coltivazioni sui vaccini anti-covid nel Lazio lo fanno perlopiù a vantaggio di interessi stranieri. La Irbm lavora per una big pharma inglese; ReiThera, che sviluppa un progetto sbandierato come tutto italiano, è stata venduta tempo fa a Keires Ag, società finanziaria con sede a Basilea; ad Anagni si produrrà invece per conto della francese Sanofi e della britannica GlaxoSmithKline. Un intreccio di interessi internazionali che tra l’altro stringerà molti nodi da sciogliere quando si discuterà nel concreto di brevetti e di proprietà intellettuale. “È un grosso rischio - conferma Cassoni - perché qui prima si faceva ricerca di base. Mentre ora sul territorio sono rimasti perlopiù ‘pillolifici’, stabilimenti di pure confezionamento che rischiano di essere delocalizzati da un momento all’altro. Se la ricerca tendenzialmente resta, la semplice manifattura è invece facile da traslocare. È già successo, e sta succedendo ancora, anche in altri settori. Le imprese ci stanno lasciando”.
L’edificio della Menarini ©Marco Merlini
“La ricerca di base qui non si fa più - conferma Valter Ciancarella, tecnico di laboratorio e Rsu Filctem della Menarini, che sta lavorando proprio sull’anticorpo monoclonale contro il covid -. Sta succedendo anche nel resto del Paese, ma da queste parti è davvero lampante. Quando sono entrato io, 20 anni fa, c'erano anche dei progetti finanziati dallo Stato, adesso non c'è più nulla del genere. C’è solo un gruppo di persone che va in Europa e negli Stati Uniti a caccia di brevetti da sviluppare, per poi mandarli in produzione qui. Nessuno prova a inventare una molecola interessante che possa essere sviluppata direttamente da noi”. Così, alla fine, le menti migliori se ne vanno all’estero, “dove gli stipendi sono più alti e ci sono più possibilità”, e in zona resta solo chi si occupa di fabbricare pillole e flaconi.
La storia Covid, l'anticorpo Made in Italy
Carlo Ruggiero
Luoghi abbandonati
La fuga di menti e di imprese dal distretto di Pomezia, però, ha radici molto più lontane e di certo non riguarda solo il comparto farmaceutico. Come in molte altre aree del nostro Paese, infatti, la stretta del rubinetto della Cassa del Mezzogiorno ha inferto un primo colpo. Poi ci sono state le crisi successive, come quella iniziata nel 2008 e che si è trascinata per oltre un decennio. Una rappresentazione plastica di quello che è successo, nonostante i vaccini e gli anticorpi di oggi, è l’enorme cementificio in decadenza lungo Via del mare dove incontriamo Simone Cioncolini, segretario della Fillea locale. È mastodontico, grigio, decadente. Ruggine e muffa la fanno da padroni, e dalle finestre senza infissi volano via cornacchie e gabbiani. Fino al 2012 questa era la sede della Cevip, una grossa industria del gruppo Abbondanza. Produceva i ‘New Jersey’, le barriere autostradali che dividono le carreggiate, ma anche traverse per i treni dell'alta velocità e tunnel di servizio in cemento. Tutto materiale che resta ancora oggi a prendere pioggia in un grande piazzale di fianco.
«Il simbolo tangibile della deindustrializzazione del territorio»
“Qui lavoravano 90 persone, ma la proprietà non è riuscita a superare la crisi del 2008, che nel settore dell'edilizia s’è fatta sentire qualche anno dopo - spiega Cioncolini -. Di grandi edifici abbandonati come questo, però, ce ne sono a decine nei dintorni”. Sono il simbolo tangibile della deindustrializzazione del territorio e della mancanza di un progetto. “Perché ci sono state troppe scelte e investimenti sbagliati da parte degli imprenditori, che poi non hanno avuto il coraggio di rimettersi in gioco. E a pagare il prezzo più alto sono, come sempre, i lavoratori. Non c’è traccia di ripresa qui”.
Anche nel comparo metalmeccanico le cose non vanno molto meglio. “Oggi resistono solo alcuni grandi gruppi, che però si contano sulle dita di una mano: Leonardo, Abb Sace, Rina Consulting, Semikron, Northrop Grumman - ci racconta il segretario generale della Fiom Angelo Zanecchia -. Le piccole e medie imprese sono al collasso, e muoiono come mosche, lasciando per strada centinaia di lavoratori. Anche nelle imprese che vanno bene il lavoro di qualità è ormai un lusso. Qui a dominare è lo staff leasing, che non dà garanzie di alcun tipo”. Pure l’Agroalimentare sta vivendo una crisi profonda.
Un elettrodotto ©Marco Merlini
“Era una punta di diamante di Pomezia – ricorda Gianfranco Moranti, segretario Flai –. Ora restano alcuni marchi importanti a livello mondiale, come Fiorucci e Crik Crok, ma stabilimenti altrettanto decisivi come Sammontana e Montebovi hanno cessato l’attività. Ci sono tante, troppe cattedrali nel deserto.” Quando va in difficoltà l’industria, però, di solito a pagare dazio sono anche i servizi, e il commercio soffre, come ci conferma Gianni Lanzi, segretario Filcams: “Nel sud del Lazio diversi gruppi multinazionali e nazionali hanno dismesso interi pezzi della filiera. Sono entrati nuovi soggetti poco affidabili, e la crisi si è scaricata sui lavoratori, che hanno in molti casi perso diritti e tutele”.
La Pontina ©Marco Merlini
Tutte queste criticità sono state accelerate dalla mancanza di infrastrutture. Arrivare a Pomezia è davvero complicato. “Per un’azienda decidere di stabilirsi qui è folle - ci racconta poi Stefano D'Andrea, segretario della Filt, mentre guida zigzagando tra il traffico e le buche della famigerata Pontina, l’incubo di tutti i pendolari -. Questa è la strada principale, è vecchia e malmessa, perennemente ingolfata. Per arrivare nella zona industriale ci sono anche la Laurentina e l'Ardeatina, ma non stanno messe molto meglio. Eppure la nostra resta una delle aree produttive più importanti della regione, anche se le infrastrutture sono un ostacolo serio”.
La stazione ferroviaria, ad esempio, sta a Santa Palomba, circa venti minuti di macchina da Pomezia e dalle sue industrie. “Le poche imprese che restano - continua D'Andrea - lo fanno perché qui c’è una professionalità diffusa tra le maestranze che è difficile da sostituire. Godiamo insomma di un equilibrio terribilmente precario, che va rinforzato con i trasporti. Ci sono anche dei progetti per trasformare la Pontina in un’autostrada e per la creazione di un interporto per lo scambio gomma-ferro, ma sono fermi da anni”.
La stazione di Pomezia Santa Palomba ©Marco Merlini
Una situazione molto complicata, dunque. Ma per risolverla, forse, la ricerca contro il covid potrebbe davvero diventare una grande opportunità. Ne è convinto il giovane sindaco di Pomezia, Adriano Zuccalà, pentastellato eletto da poco, che gongola: “La Irbn ci ha portato sul tetto del mondo, dobbiamo puntare sul farmaceutico”. Ci crede anche il sindacato, che vede nella visibilità acquisita negli ultimi mesi una possibilità di rilancio dell’intero territorio. Secondo Alessandro Borioni, segretario generale della Filctem del Lazio, “le eccellenze regionali vanno supportate. Ci sono alcuni stabilimenti che stanno lavorando a pieno regime, ma bisogna fare in modo che questa occasione permetta un ricambio generazionale. Le aziende dovrebbero modificare i cicli produttivi per far fronte alle nuove esigenze che si stanno creando”.
«Bisogna fare sistema per rilanciare la ricerca e l'innovazione»
“Abbiamo avanzato da tempo delle proposte alle istituzioni - ci spiega invece Claudia Bella, della segreteria della Camera del lavoro di Roma sud, Pomezia, Castelli -. Noi crediamo che sia necessario partire dalle specificità del territorio, ma bisogna fare sistema per rilanciare la ricerca e l'innovazione, e renderci così nuovamente attrattivi per investimenti pubblici e privati”. In tempo di covid, in un progetto come questo, il chimico-farmaceutico non può che assumere un ruolo da protagonista: “Vorremmo creare qui un hub delle scienze della vita. Siamo in una posizione strategica, a metà strada tra Roma e l'asse Frosinone-Latina. A poca distanza c’è anche l’Università di Tor Vergata, che potrebbe generare nuove sinergie. È il modo giusto per riprendere a innovazione in questo territorio”.
I capannoni in abbandono della Cevip ©Marco Merlini
Ma a beneficiarne sarebbero anche gli altri comparti, grazie alla “rigenerazione urbana dei siti abbandonati, che potrebbero essere riconsegnati alla collettività”, oppure con “sinergie con la zona agricola dei Castelli Romani, sperimentando forme di filiera corta e sistemi di tracciabilità”. Senza dimenticare la riqualificazione del settore turistico del poco lontano litorale romano, in forte difficoltà dall’inizio della pandemia.
Le proposte insomma sono molte. E sono tutte già sul tavolo. “Vogliamo avviare un percorso condiviso, e chiamare a raccolta tutte le forze del territorio”, conclude Claudia Bella. Il sindacato sta cercando di istituire una sorta di “patto territoriale per lo sviluppo e la buona occupazione”, ma finora “un vero e proprio tavolo non si è mai concretizzato”. Bisogna fare presto, perché la finestra delle opportunità si sta chiudendo in fretta: “L’occasione che ci fornisce la ricerca contro il covid è irripetibile. E poi ci sono i fondi del Recovery fund e della nuova programmazione strutturale europea. Sono risorse preziose, che non vanno sprecate”.
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La scienza dimostra che senza collaborazione tra Paesi ricchi e Paesi poveri i morti per covid rischiano di raddoppiare. Non è solo un problema etico, un siero meno diffuso avrebbe meno effetto anche nelle aree ad alto reddito. L'esperienza dell'Hiv insegna. In molti chiedono una moratoria sui brevetti
(coordinamento editoriale Maurizio Minnucci, foto Marco Merlini, grafiche Massimiliano Acerra)
Il Covid non concede tregua al mondo e spinge i produttori di vaccini a ritmi lavorativi forsennati, accompagnati da ampliamenti di stabilimenti o realizzazione di nuove linee produttive. Per tenere testa a una domanda sempre crescente e a numeri finora inimmaginabili ci sono al momento solo una manciata di aziende farmaceutiche: Pfizer-Biontech, Moderna e AstraZeneca. Il mondo occidentale vive qunidi con angoscia i ritardi e le decurtazioni dei lotti pattuiti, ma in questo contesto si fa sempre più evidente anche l’abbandono a se stessi dei Paesi a basso reddito. Non è un caso se su 42 stati che hanno iniziato a inoculare il siero contro il covid, 36 siano ad alto reddito.
Uno dei problemi più evidenti dell’accesso ai vaccini è il costo che le economie più povere non possono permettersi. I prezzi, fino a poco tempo fa coperti dal segreto, sono sfuggiti a Eva De Bleeker, segretario di Stato belga, in un tweet: il prezzo per dose sarebbe 1,78 euro per AstraZeneca (il vaccino meno innovativo), 14,68 per Moderna e 12 per Pfizer-Biontech. Per prevenire le maggiori disparità nella diffusione del vaccino, nel 2020 era stata avviata l'Access to Covid-19 tool accelerator (Act), una collaborazione internazionale che vede la fondamentale partecipazione dell’Oms insieme al coinvolgimento di diverse associazioni e fondazioni. Act ha creato Covax, un progetto per mettere insieme 2 miliardi di vaccini per oltre 90 nazioni povere. I risultati, però, sono al momento a dir poco sconfortanti. E i problemi di produzione cominciano a intrecciarsi in maniera sempre più evidente con quelli relativi alla proprietà intellettuale.
L'intervistaCovid, mezzo mondo è senza difese
Carlo Ruggiero
Secondo Elda Baggio, docente all’Università di Verona, chirurgo con un'ampia esperienza in contesti di conflitto e vicepresidente di Medici senza frontiere Italia, infatti, “è vero che alcuni vaccini sono stati realizzati utilizzando una tecnica molto sofisticata, ma è anche vero che i governi hanno versato milioni e milioni di dollari alle aziende farmaceutiche per realizzarli. Quindi il diritto alla proprietà intellettuale e al profitto in questo caso si può ridiscutere”. La soluzione per Medici senza frontiere è semplice: produrre vaccini a basso costo per i Paesi a medio e basso reddito. “In passato - conclude Baggio - abbiamo avuto migliaia di morti per Hiv in Africa prima che si vincesse la battaglia sul farmaco generico per la terapia. Questa deve essere la strada: congelare per un periodo le proprietà intellettuali e permettere a Paesi come l'India e il Sudafrica di accedere alla tecnologia per produrre il generico del vaccino e di una futura terapia. Perché lo stesso problema si presenterà quando troveremo una cura per il covid”.
La produzione e la commercializzazione dei farmaci sono protetti dai diritti proprietari che, considerando le regole che si è dato il Wto con gli accordi Trips, e durano 20 anni. In particolari condizioni queste regole possono anche essere superate, tuttavia non è così semplice. Secondo Andrea Capocci, giornalista scientifico che di questi temi scrive per il Manifesto, il problema dei costi e del proprietario del regime non riguarda solo i paesi a basso reddito “Certamente li riguarda in misura maggiore - dice -, sono quelli sui quali il problema della scarsa capacità produttiva e dell'innalzamento dei costi . E quindi dell'asta che avviene a livello internazionale ha un impatto maggiore. Però il problema interessa anche Paesi come l'Italia”.
“Sicuramente noi avremo più vaccini del Kenya - spiega -, ma nonostante questo vediamo come la campagna vaccinale proceda lentamente per coprire una parte sostanziale della popolazione. Tutto ciò non è una variabile indipendente: questa situazione deriva dalle politiche delle aziende e dal regime di proprietà intellettuale dei brevetti. Se per ipotesi domani il Wto decidesse di derogare in questo caso ai brevetti, sarebbe più facile anche nei Paesi ricchi allargare la produzione”.
L'intervista Le regole del Wto prevedono 20 anni di diritti di proprietà sui farmaci. Ma è giusto in una situazione di crisi sanitaria globale come quella che stiamo attraversando? Derogare a queste norme, spiega Andrea Capocci, giornalista scientifico del «Manifesto», sarebbe importante per i Paesi più poveri ma permetterebbe anche di allargare la produzione in quelli più ricchiLeggi anche
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Oltre alla questione etica, tra l'altro, ce n'è una più meramente scientifica. Il Network science institute della Northeastern University di Boston, sotto la guida dell’italiano Alessandro Vespignani, ha elaborato un modello per indagare le conseguenze di una distribuzione squilibrata dei vaccini. Gli scienziati hanno sondato due possibilità partendo da una disposizione di 3 miliardi di dosi. Nel primo scenario 2 miliardi di vaccini sono divisi tra 50 nazioni ad alto reddito, mentre il restante miliardo distribuito equamente nel resto del globo. Nel secondo scenario tutte le dosi sono distribuite equamente in tutti i paesi, senza fare leva sul meccanismo del maggior offerente, ma in proporzione alla popolazione. Nel primo caso, si eviterebbe il 33% dei decessi prevedibili a livello globale, mentre nel secondo caso si arriverebbe a impedire la morte del 61%, quasi il doppio.
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“Le decisioni su come si assegnano i vaccini non possono essere prese sulla base di un solo modello”, dicono oggi gli studiosi. Anche perché, oltre alle risorse per l'acquisto, i Paesi hanno bisogno di fondi e coordinamento per distribuire il vaccino. Ma per ora, i risultati appaiono chiari: "Quando il mondo collabora, il numero di morti si dimezza”.
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Siamo tornati a occuparci di vaccini. A Siena da oltre 100 anni si studiano e si producono, ci sono laboratori di biotecnologia tra i migliori al mondo e uno stabilimento in grado di sfornare 300mila dosi al giorno. Mettere a regime queste eccellenze potrebbe risolvere il problema dell'approvvigionamento nazionale e avere ricadute positive sul territorio. Alle case farmaceutiche, però, non conviene
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