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I ritardi nella consegna da parte delle big pharma mettono in crisi i piani dei governi e dell'Ue, ma fanno anche luce su una filiera complessa e su un sistema produttivo poco conosciuto. Intanto il nodo dei brevetti rallenta l'immunità e scatena le contraddizioni tra profitto delle aziende e salute dei cittadini
(coordinamento editoriale Maurizio Minnucci, foto Marco Merlini, grafiche Massimiliano Acerra)
La corsa al vaccino anti-covid che il mondo ha intrapreso dalla fine dello scorso anno si sta rivelando a dir poco accidentata. I ritardi registrati nella produzione e nella consegna hanno dato il via libera a una scia infinita di polemiche, accuse e controaccuse tra Unione europea, stati membri e grandi aziende farmaceutiche. Prima di Natale, Sanofi aveva già annunciato sei mesi di ritardo nel rilascio del suo siero, poi a gennaio è stata la volta di Pfizer-Biontech, che ha avuto intoppi nella produzione. Infine, è toccato ad AstraZeneca mettere nei guai l'Unione europea dimezzando le dosi promesse. Un percorso a ostacoli insomma, anche prevedibile, ma che ha messo in crisi il piano vaccinale disegnato dai governi degli stai membri. E che ha evidenziato tutti i nervi scoperti di una filiera, quella del farmaco, che per sua natura ha un andamento lento, macchinoso e qualche volta non proprio trasparente. Una filiera che però, in piena emergenza sanitaria, ha subito un'accelerata mai vista prima d'ora.
©Marco Merlini
Generalmente lo sviluppo di un vaccino necessita dai sette ai dieci anni. Per quello contro il Covid sono bastati meno di dieci mesi. Il tutto, ovviamente, grazie a una cascata di soldi pubblici. L'Europa ha messo in atto una negoziazione centrale per avere la prelazione su un numero altissimo di vaccini. I contratti sono stati firmati con 6 aziende e prevedono la prelazione su un miliardo e mezzo di fialette, più altri 700 milioni di dosi nel tempo.
GLI ANELLI DELLA CATENA
La storia del vaccino contro il Covid, quindi, rappresenta un'anomalia. Ma anche un'occasione, forse unica, per approfondire i rapporti sempre più agitati oggi tra proprietà intellettuale, legittimo profitto per le aziende e diritto alla cura di ogni singolo cittadino. Un vaccino, come un qualsiasi altro medicinale, prima di arrivare in farmacia deve infatti seguire un percorso obbligato, che però parte sempre da un laboratorio di ricerca. Dopo gli studi in vitro, il siero viene sottoposto a 4 fasi di sperimentazione, tre prima dell’autorizzazione, la quarta quando è già sul mercato. In Europa, le aziende devono dimostrare la sicurezza e l'efficacia di un prodotto alla European medicine agency (Ema). Solo dopo l'approvazione dell’Ema e l'ok della Commissione europea, può iniziare il processo di produzione sotto l'egida dell'Aifa, l'agenzia italiana del farmaco. Di solito ci vogliono anni. Così come diversi mesi servono per la fabbricazione di un qualsiasi prodotto biologico. Molto spesso le aziende devono anche adeguare o ricostruire da zero le proprie linee produttive. Questo vale ancor di più per i vaccini innovativi basati sulla molecola spike, come quelli oggi prodotti da Pfizer e Moderna. Poi ci sono le fasi successive: l'infialamento e lo stoccaggio. Passaggi particolarmente complessi, soprattutto per il siero Pfizer che dev'essere conservato a -70 gradi centigradi. Il trasporto rappresenta l'ultimo miglio. Oggi la logistica farmaceutica italiana è composta da circa 300 aziende autorizzate. Il flusso passa attraverso i grossisti e coinvolge l’80% del volume movimentato, mentre solo il 20% del traffico va direttamente dai depositari ai clienti.
@Fidia farmaceutici
Il più delle volte, tra l'altro, gli anelli di questa lunga catena non sono nelle stesse mani, né nello stesso Paese. Non è detto, insomma, che chi possegga il brevetto della molecola, sia lo stesso soggetto che mette in atto la sperimentazione clinica. E magari chi lo produce, non lo infiala, e forse non lo stocca. Sicuramente, poi, c'è qualcun altro che lo trasporta. La filiera farmaceutica, insomma, è costituita da molte realtà distinte, che spesso si trovano in luoghi diversi. Ad esempio, uno dei vaccini distribuiti in Europa è stato messo a punto dall’Università di Oxford, in collaborazione con l'Irbm di Pomezia, a un tiro di schioppo da Roma. Verrà prodotto da Astrazeneca in Inghilterra, ma infialato dalla Catalent di Anagni, in provincia di Frosinone. Lo stesso vale per il vaccino Moderna, che non ha altri prodotti commercializzati e non ha mai dovuto costruire canali di distribuzione per un medicinale. La maggior parte della produzione avviene tramite Lonza, un’impresa svizzera in partnership con altri grandi produttori. Recentemente Pfizer e BioNTech hanno invece annunciato accordi con compagnie esterne per velocizzare la produzione. Anche il cosiddetto vaccino “tutto made in Italy” che ha ricevuto finanziamenti dal Miur e dalla Regione Lazio è stato sviluppato dalla ReiThera di Castel Romano, che però è stata venduta tempo fa a Keires Ag, società finanziaria con sede a Basilea. L’Italia investirà altri 81 milioni di euro su questo siero, 11,7 saranno utilizzati per la produzione, attraverso l’ampliamento dello stabilimento di Castel Romano. Ma non è ancora dato sapere dove e come avverranno tutti gli altri passaggi.
IL FARMACO IN CONTO TERZI
Nella catena di produzione dei vaccini finora acquistati dall'Italia e dagli altri paesi dell'Unione, in effetti, l'industria farmaceutica italiana svolge un ruolo importante, ma il più delle volte non da protagonista. Di sicuro c'è che nessuna filiera, dagli studi in vitro alla distribuzione, risiede interamente in Italia. A relegare le aziende nostrane a una funzione spesso di puro confezionamento concorre, tra l'altro, la struttura stessa del nostro comparto farmaceutico. Secondo l'ultimo rapporto sugli indicatori di Farmindustria, il settore gode di ottima salute. Siamo i primi produttori dell'Unione europea con 283 imprese, 66.500 dipendenti, e un valore della produzione nel 2019 di 34 miliardi di euro. Ma a caratterizzare il farmaco italiano è sopratutto la massiccia presenza di capitali stranieri: il 58% del totale. E le esportazioni, che rappresentano addirittura il 96% della produzione. Una cifra che si è quasi raddoppiata negli ultimi 10 anni.
I vaccini, però, non sono il core business della farmaceutica italiana. Nel 2019 hanno rappresentato solo il 3,3% delle esportazioni totali. Il comparto, in realtà, sta puntando sempre più forte sul cosiddetto Cdmo (Contract Development and Manufacturing Organization). Si tratta di quelle aziende che sviluppano e producono farmaci “per conto” delle grandi multinazionali. La quota dei contoterzisti italiani sul valore della produzione complessiva europea di farmaci è addirittura pari al 29%, più di Germania e Francia. Il tutto vale oltre 2 miliardi di fatturato, una cifra che ci proietta al primo posto in Europa sul fronte occupazionale tra le aziende conto terzi, con circa 8 mila addetti.
L'Italia del farmaco, insomma, diventa sempre più ricca, produce più medicinali che vaccini, e li esporta quasi tutti. Ma, verrebbe da dire: è un lavoro da contoterzisti che ci mettono le braccia, mentre il cervello dei brevetti resta nelle mani delle multinazionali straniere. In realtà, secondo Farmindustria, il Cdmo rappresenta un fiore all'occhiello, una vera e propria eccellenza: “Un modello organizzativo largamente diffuso, che permette di esternalizzare la produzione e lo sviluppo di farmaci in fabbriche e laboratori dedicati dotati di ampie capacità operative”. Il rischio però, come ripete da vari territori la Filctem Cgil. è quello di lasciare in mano italiana solo i “pillolifici”, gli stabilimenti di puro confezionamento o di logistica, che possono essere delocalizzati da un momento all’altro. Se la ricerca di base tendenzialmente resta, infatti, la semplice manifattura è molto facile da traslocare. I pillolifici, insomma ,sono “stabilimenti con le rotelle”. È già successo, e sta succedendo ancora, in molti distretti e pure in altri settori.
Video-schedaIl farmaco conto terzi
Carlo Ruggiero
Videoscheda: l'industria farmaceutica in numeri
Un esempio concreto è quello che sta succedendo alla Sanofi di Anagni. Nello stabilimento in provincia di Frosinone si sarebbero dovute produrre milioni di dosi del vaccino sviluppato dalla Big Pharma francese insieme alla britannica Gsk. Erano già state adattate le linee produttive, e si stava iniziando a discutere con il sindacato per la stabilizzazione di un buon numero di operai. Nello scorso dicembre, però, è arrivata la doccia fredda: i cattivi risultati ottenuti nella sperimentazione sull'uomo, hanno portato a un ritardo di mesi nella produzione. Il siero, quindi, potrebbe essere pronto soltanto alla fine del 2021. E, al momento, non è dato sapere se e dove verrà prodotto. Una provetta andata a male in un laboratorio francese, insomma, oggi tiene appesi a un filo decine e decine di operai di uno stabilimento ciociaro.
CONVERGENZE PARALLELE
Di fronte agli intoppi che si sono registrati nella produzione e nell'approvvigionamento dei vaccini in Europa e alle forti tensioni che stanno creando, alcune delle multinazionali coinvolte cercano di correre ai ripari. Uno degli interventi messi in campo è rappresentato da possibili accordi che rendano disponili le linee produttive di altre imprese non ancora coinvolte. Sanofi, ad esempio, dopo lo stop al suo vaccino ha recentemente offerto le sue fabbriche per produrre il siero americano Pfizer. La tedesca BioNTech, che lo ha sviluppato, avrà quindi accesso agli stabilimenti della Sanofi di Francoforte per fornire oltre 125 milioni di dosi destinate ai paesi Ue. Le prime fialette arriveranno in estate.
©Marco Merlini
Convenzioni come queste hanno subito ricevuto la benedizione degli industriali italiani. “La collaborazione tra contoterzisti e aziende detentrici del farmaco in Italia una prassi normalissima – dice Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria -. Il problema è che chi deve produrre vaccini deve avere delle macchine compatibili e non sono molto comuni. L'importante è che si trovino aziende che possano dare in questo momento. Occorre adeguare gli impianti produttivi. Il vaccino contro il Covid è arrivato miracolosamente in pochi mesi, adesso la seconda sfida è averne in grande quantità, e le aziende ce la stanno mettendo tutta”.
L'intervistaFarmindustria, i brevetti e la pandemia
Carlo Ruggiero
Intervista a Massimo Saccabarozzi, presidente Farmindustria
Farmindustria, ovviamente, tira acqua al suo mulino. In queste alleanze, infatti, la farmaceutica italiana, forte della sua esperienza contoterzista, potrebbe svolgere un ruolo significativo. Ne sono convinti anche alla Fidia Farmaceutici, azienda di Abano Terme che da trent'anni produce farmaci e soprattutto vaccini per conto terzi. “Di fronte ad esigenze di salute pubblica e sicurezza nazionale, - dicono dalla Fidia - confermiamo la nostra disponibilità, già comunicata alle autorità competenti, a partecipare alla produzione di vaccini, nel rispetto degli accordi in essere con gli attuali partner”. L’auspicio dell'azienda è che, “a fronte del bene comune che resta la salute di tutti, anche altre aziende italiane con adeguato know-how diano la propria disponibilità a partecipare ad un programma di più ampio respiro: prevedere, all’interno del Piano pandemico nazionale, un coinvolgimento strutturato per la produzione di quanto necessario a contrastare e gestire le emergenze sanitarie e garantire così al Paese una maggiore autonomia sulle scorte e programmazione nel lungo periodo”.
«Altre aziende diano disponibilità per il bene comune»
Una disponibilità simile è arrivata anche dal fronte sindacale. A Siena, la Cgil chiede a gran voce che il distretto farmaceutico locale possa partecipare allo “sforzo globale” della produzione del vaccino anti-covid, domandandosi perché l’Italia, “che produce l’11% dei farmaci del mondo, si sia autoesclusa dalla produzioni delle dosi”. Secondo Marco Goracci, segretario generale della Filctem senese, bisognerebbe puntare sullo stabilimento Gsk di Rosia (tre linee produttive e oltre 2.000 dipendenti a 23 chilometri dal capoluogo): “Ha un potenziale enorme in termini produttivi, soprattutto nel settore dell’infialamento e del confezionamento. Trasferire da un’altra azienda agli stabilimenti un prodotto, o parte del processo, prevede delle procedure che normalmente impiegherebbero molti mesi”. Ma, dice la Filctem, se è stato realizzato un vaccino in un anno “si può ragionevolmente pensare che si possa fare anche altro in brevissimo tempo”.
L'intervistaUn Paese senza ricerca
Carlo Ruggiero
Intervista ad Aldo Zago, Filctem Cgil
A interessare il sindacato è soprattutto la ricaduta che un'operazione del genere potrebbe sul comparto locale. In questo modo, il territorio senese e quello toscano, con il loro indotto, “registrerebbero significativi incrementi occupazionali”. Qualora Gsk accettasse di fare la sua parte, dice il sindacato, “infialando, per esempio, il vaccino Pfizer (che come è noto contiene dalle cinque alle sei dosi per flacone) in un solo mese potrebbe consegnare l’equivalente di 15 milioni di vaccini contro il corona virus”. Uno scenario ripreso anche dal Presidente di Confindustria Carlo Bonomi nel corso di Mezz'ora in più su RaiTre. A Siena, però, la Gsk continua a nicchiare, parlando di “tecnologie incompatibili”.
SEGRETI INDUSTRIALI
Insomma, con l'aumentare del ritardo, quello dell'implemento di pezzi di filiera è un tema che sta guadagnando sempre più eco nel dibattito pubblico. Ma mettere in mano a un'azienda concorrente una linea produttiva, dati o conoscenze è un rischio che non tutti vogliono correre. Diverse big pharma hanno infatti detto che durante la pandemia non trarranno profitto. Ma il brevetto in farmaceutica è solo una parte di un processo produttivo lungo e articolato. Nella filiera ci sono molti segreti industriali, che riguardano le materie prime, i macchinari, i reagenti, e conoscenze, dati e protocolli protetti da copyright. Tanto che Farmindustria, come conferma il suo presidente Scaccabarozzi non crede che "liberalizzare i vaccini possa essere una soluzione. Bastano accordi tra privati".
In realtà, una proposta per un'elaborazione di una filiera integrata del farmaco tutta italiana già esiste. Non riguarda direttamente i vaccini, ma traccia comunque un via percorribile. E' il progetto del cluster tecnologico nazionale Scienze della vita Alisei, che proprio con Farmindustria, Egualia (farmaci generici) e Federchimica Aschimfarma (produzione di principi attivi), ha presentato un piano di ampliamento e modernizzazione degli impianti di produzione di circa 60 aziende italiane sulla base della mappatura delle loro capacità produttive. L'obiettivo è sostanzialmente riportare intere filiere nel nostro paese, nel quadro del Piano nazionale di ripresa e resilienza, attraverso la conversione degli impianti. La parola d'ordine è inglese: reshoring (il fenomeno del rientro a casa di aziende che in precedenza avevano delocalizzato ndr), ma a si può tranquillamente tradurre in: “autarchia farmaceutica”. Da contrapporre alla dipendenza dalle economie orientali sempre crescente nel comparto.
Un laboratorio di ricerca ©Marco Merlini
Anche nel caso si raggiungesse davvero l'obiettivo di una filiera autarchica, però, per vaccini e anticorpi monoclonali contro il covid il nodo da sciogliere resterebbe comunque quello della proprietà intellettuale. Secondo Farmindustria, in questo momento, “liberare i brevetti non è la soluzione per produrre più vaccini, perché la tutela della proprietà intellettuale serve proprio a garantire la ricerca”. Lo ha ripetuto il presidente Scaccabarozzi in diverse occasioni. Secondo l'ad di Fidia Farmaceutici Carlo Pizzoccaro, invece, il motivo per cui le multinazionali stentano a condividere i progetti e le produzioni sta proprio nel fatto che “vogliono tenere il know-how di vaccini così innovativi al loro interno, e non terzializzarlo. Penso che questo sia il problema più grosso”. Lo ha detto in Tv, a Tagatà, su La7.
Il dibattito è aperto, soprattutto per garantire una diffusione dei vaccini che sia davvero globale, e che coinvolga anche i paesi a basso reddito. Su questo fronte, Cgil, Cisl e Uil, si sono fatti parte attiva del comitato promotore di un'Iniziativa dei cittadini europei (Ice) promossa da autorevoli personalità di vari Paesi e autorizzata dalla Commissione europea. L'obiettivo è raccogliere un milione di firme online, di cui 180 mila in Italia, per chiedere che “l'accesso a vaccini e cure anti-pandemiche sia gratuito e garantito a tutti, a livello globale, che vi siano trasparenza e controllo sul denaro pubblico utilizzato per sviluppare le tecnologie sanitarie e nessun profitto delle aziende farmaceutiche a scapito della salute delle persone”.
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Roberta Lisi
Il nodo della proprietà intellettuale, in effetti, non si pone esclusivamente per la diffusione nei paesi poveri, come dimostrano alcuni studi, ma anche nella ricca Europa. “Di fronte a un'emergenza sanitaria è prevista dai trattati internazionali la possibilità di derogare ai brevetti, per esempio attraverso la cosiddetta licenza obbligatoria, con la possibilità di produzione del vaccino da parte di altre aziende. Questo potrebbe aumentare il numero di dosi prodotte e diminuire il costo del vaccino”, ci spiega Antonio Clavenna, responsabile del Dipartimento di salute pubblica, dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. La diminuzione del prezzo dei vaccini può infatti determinare “un aumento delle dosi prodotte e dalla disponibilità di vaccini che non richiedono il mantenimento della catena del freddo per la distribuzione”.
«Si rischiano disparità nel diritto alla cura»
Oggi più che mai, continua Clavenna, “il rischio che ci siano disparità nel diritto alla cura dovute alla tutela della proprietà intellettuale è molto concreto, in particolare per nuove terapie che possono avere un costo più elevato, come gli anticorpi monoclonali”. “Gli strumenti per una sospensione della tutela brevettuale esistono - conclude -, ma non significa che sia semplice metterli in atto”. La disfida dei vaccini, insomma, pare appena iniziata. E' un enigma complesso, che pone questioni spinose sul rapporto tra Stati e potentati economici, tra rendite di posizione e vantaggi geopolitici, tra regole della concorrenza e accordi spesso al ribasso per governi e istituzioni. Una manciata dei tanti nervi scoperti della nostra società che in pochi mesi la pandemia ha portato a galla, forse una volta per tutte.