Nei giorni 29 - 30 novembre 1968 si tiene a Napoli l’Assemblea dei dirigenti sindacali del Mezzogiorno. Alla manifestazione prendono parte ottocento attivisti in rappresentanza delle più importanti federazioni di categoria e delle maggiori camere del lavoro. Alla Presidenza, i segretari confederali Rinaldo Scheda, Vittorio Foa, Luciano Lama e Fernando Montagnani, i vice segretari Mario Didò, Arvedo Forni, Gino Guerra e Silvano Verzelli ed il segretario della Camera del lavoro di Napoli Giuseppe Vignola. Al centro della discussione la situazione economica, sociale e sindacale del Sud e i contenuti delle azioni sindacali da portare avanti. Fra queste particolare rilievo assumono gli scioperi regionali contro le zone salariali proclamati unitariamente in Calabria (9 dicembre), Sardegna (10), Sicilia (11), Emilia e Puglia (12), Abruzzo e Toscana (13).

È Rinaldo Scheda ad aprire i lavori con la relazione introduttiva di cui seguono ampi stralci:

La convocazione di questa assemblea ha come motivo di fondo la constatazione che, nella attuale fase dell’azione sindacale, le masse lavoratrici meridionali, nelle città e nelle campagne, giocano già un ruolo di portata essenziale, decisiva; e ancor più saranno chiamate a sostenerlo nel prossimo avvenire. La fase che attraversiamo è caratterizzata da una forte tensione rivendicativa e sociale; da scontri ampi, profondi, difficili ed anche aspri. Ma si tratta, nello stesso tempo, di una fase molto aperta e, anche se ardua e complessa, ricca di possibilità per nuove avanzate, per nuove conquiste che, oltre a dover corrispondere alle legittime aspirazioni immediate dei lavoratori italiani, siano di una portata tale da imporre mutamenti sostanziali tali da coinvolgere gli stessi indirizzi di politica economica e sociale finora perseguiti nel Paese dalle forze padronali e conservatrici. Questo è il punto centrale di questa fase della situazione sindacale. La tenace ricerca di soluzioni positive immediate per le rivendicazioni dei lavoratori oggi sul tappeto, non può e non deve risultare in contraddizione con gli sbocchi che sono richiesti dal profondo e diffuso malcontento di tanta parte della popolazione, dalla crescente e già acuta tensione sul piano sindacale e sociale, dalla lotta unitaria di milioni di lavoratori, di cittadini, di studenti dai cui movimenti sprigiona oggi una maturità nuova, un vigore inequivocabile. Di ciò, noi e tutte le organizzazioni sindacali dobbiamo tener conto. Voglio cioè rilevare che le spinte e i movimenti in atto pongono l’esigenza di un profondo mutamento negli indirizzi che finora sono riusciti a prevalere nel campo della politica salariale, in quello dell’occupazione e dello sviluppo economico, in quello dei diritti democratici e sindacali dei lavoratori e del ruolo del sindacato nelle aziende e nella società, nel campo del pensionamento e della sicurezza sociale, nel campo della scuola e in altri fondamentali settori della vita civile e sociale. Questo è l’impegno - e anche la difficoltà - che emerge dalla presente situazione. Si dirà che quelle esigenze, quelle istanze, sono poste da tempo, per esempio dalla nostra organizzazione. È vero. È  da tempo che la Cgil denuncia una condizione dei lavoratori e una situazione delle strutture sociali sempre più insostenibile, nel Mezzogiorno e nel Paese in generale.

Eppure prosegue nel suo intervento l'allora segretario confederale della Cgil sembra essere cresciuta la posta in gioco da un lato e dall'altro c'è la concreta possibilità per un'avanzata del movimento.

Mentre milioni di lavoratori si muovono, nelle fabbriche nuove e in quelle vecchie, l’apporto delle nuove generazioni sta diventando massiccio e entusiasmante, mentre l’inventiva di lotta sta crescendo in forme nuove, positive, avanzate. Questi movimenti di lotta non soltanto hanno assunto grandi dimensioni ma hanno acquisito altresì la caratteristica di una continuità d’azione e una articolazione di movimento, davvero impressionante. E questo è un segno di grande maturità. Interessante è il fatto che i necessari momenti di generalizzazione (come gli scioperi generali per le pensioni o contro le "zone") non abbiano offuscato né tanto meno deviato l’iniziativa articolata di fabbrica: e questo è un dato anch’esso comune a tutte le regioni del Paese. Il fatto è che questi movimenti, pur con limiti talvolta seri (come la mancanza di incisività della lotta articolata in un certo numero di aziende e in qualche settore, oppure la mancata concretizzazione di movimenti reali sul fronte dell’occupazione), presentano un quadro complessivo sulla base del quale già si può vedere quanto positivo sia stato il bilancio di questa annata. Qui nel Mezzogiorno, come nelle altre regioni, si tratta già di un movimento che riesce ad operare su un arco ricco di iniziative, di rivendicazioni, che vanno dall’azione articolata nell’azienda alla lotta per il superamento delle “zone” salariali, dalla lotta per i contratti di settore a un impegno crescente nelle iniziative per la difesa e l’espansione dell’occupazione, per lo sviluppo economico fino a realizzare con successo, quest'anno, anche due scioperi generali per il miglioramento delle pensioni e la riforma del pensionamento. È aumentata, in sostanza, la capacità del movimento sindacale di darsi disegni rivendicativi più ricchi e di operare su più “tavoli”, reagendo in questo modo al ricatto padronale che tenta di contrapporre l’occupazione ai salari e infrangendo nello stesso tempo il disegno di insabbiare l’iniziativa sindacale.

Mentre il processo unitario sembrava compiere dei processi e il movimento studentesco prendeva piena consapevolezza delle lotte operaie e bracciantili, emergeva il tema cruciale dei salari. 

 Avevamo messo in guardia la Confindustria su quello che "bolliva in pentola". Abbiamo annunciato che non si trattava di una delle tante vertenze. La lotta contro le "gabbie", contro "l’Italia a fette", contro l’esistenza di lavoratori di là, di 2a, e di 3a o 4a classe, è una lotta contro tutta una politica, fatta dai gruppi dirigenti verso il Mezzogiorno, e a danno dell’intero Paese. La carica combattiva, espressa da centinaia di migliaia di lavoratori meridionali e di altre zone soggetti a discriminazione, non ci ha quindi colto di sorpresa. Ma anche di questa carica dobbiamo comprendere e fare intendere alla classe dirigente tutte le implicazioni. La presa di coscienza e la legittima esaltazione dei dati positivi sullo stato del movimento, e delle possibilità che esistono di ottenere risultati importanti, non ci possono permettere di oscurare o tantomeno minimizzare le difficoltà presenti nel tipo di scontro in atto nelle vertenze oggi sul tappeto. Le difficoltà ci sono e scaturiscono innanzitutto dal comportamento del padronato, dalle scelte che queste forze continuano a perseguire nel campo dei rapporti sindacali e ad imporre all’intero Paese. Tale linea dei gruppi dirigenti padronali è tuttora ancorata a un sostanziale irrigidimento nei confronti delle rivendicazioni dei lavoratori. Essa ha per capisaldi: bassi salari ed in generale compressione del costo del lavoro (significative in proposito sono le posizioni di Costa per le pensioni, col rifiuto dell’agganciamento all’80 per cento della retribuzione e con la proposta di pensionamento a 65 anni); negazione di ogni effettiva autonomia contrattuale al sindacato nelle aziende (e qui si inserisce la nostra rivendicazione, presentata alla Confindustria per il diritto di assemblea e il riconoscimento della sezione sindacale aziendale); discriminazione e barriere contro i militanti e, infine, pressioni per spingere ai margini della società il movimento sindacale, a meno che esso non si lasci addomesticare (per esempio, attraverso l’accordo-quadro). Si tratta di una linea che non regge: essa non può vincere, può soltanto resistere più o meno a lungo. E ciò dipende anche da noi. Non può vincere perché fa acqua ovunque.

 Parole, quelle di Scheda, che tornano attuali sia per quanto riguarda la centralità dei salari per il rilancio dell'economia sia per quanto riguarda la pratica degli incentivi al mondo delle imprese.

La tesi del basso salario come condizione di stimolo e incentivazione allo sviluppo economico è una mistificazione, non è altro che un inganno: tutti i dati confermano che la compressione del livello salariale ha depresso l’ambiente e ha reso più difficile e costosa la formazione e l’adattamento delle forze di lavoro. I processi di industrializzazione "indotta” dai bassi salari e dagli altri incentivi statali hanno creato «rendite» salariali per i padroni, ma non ha consentito di creare un mercato meridionale autopropulsivo, che può nascere soltanto da una domanda crescente di beni di consumo e di investimento. Inoltre, l’insieme della incentivazione ha giocato a favore delle aziende ad alta intensità di capitale (siderurgia, petrolchimica), senza dare sviluppo alla meccanica e tanto meno all’occupazione in generale dei lavoratori. Si assiste, altresì, al fenomeno di insediamento di alcune nuove grandi aziende (vedi il caso dell’Alfa Sud), dove si punta all’utilizzazione dei quadri tecnici e specializzati già attivi, togliendoli da altre attività minacciate oppure portandoli dal Nord o dall’estero. Pieni fra l’altro di una altezzosità di tipo colonialistico. Anche la stessa linea di industrializzazione sostenuta, ad esempio, dalla Fiat (sulla carta...) con imprese nuove ad alta intensità di lavoro (elettronica, elettromeccanica, aeronautica, elettronucleare ecc.) non ha affrontato l’esigenza di una crescita industriale collocata nel vivo della realtà meridionale, basata sull’industria di trasformazione legata alla agricoltura, a un’agricoltura da valorizzare attraverso misure di riforma radicale. I dati della realtà dimostrano quindi il fallimento della linea dei bassi salari, della compressione del costo del lavoro e dell’incentivazione diretta dei grandi gruppi industriali. Questa linea può e deve essere battuta, anche se tenace è la resistenza delle forze padronali e conservatrici. Tale caparbietà non vi è stata soltanto nell’atteggiamento della Confindustria: lo stesso governo ha trovato il modo di eludere per mesi, fino alla crisi, il problema delle pensioni e perfino l’impegno di copertura del fondo sociale che spetta allo stato. Tuttavia, il governo ha saputo trovare centinaia di miliardi da concedere a buon mercato ai grandi gruppi padronali attraverso gli sgravi e gli incentivi previsti dal cosiddetto decretone. Non è, d’altra parte, escluso che lo sconquasso in atto nel sistema monetario e gli esempi di politica antioperaia forniti in questi giorni da De Gaulle non suggeriscano linee di tendenza apertamente reazionaria a qualche ambiente nel nostro Paese più pronto a recepirle. A questo proposito, rendendosi conto della gravità della crisi monetaria e delle sue possibili conseguenze, la segreteria della Cgil pensa di lanciare una proposta unitaria di iniziativa sindacale. Ma le forze padronali, i gruppi dirigenti del Paese faranno bene a misurare i loro passi. La Cgil, il movimento sindacale italiano hanno dato prova di maturità, di senso di responsabilità: questo non significa certo un ammorbidimento o tanto meno una rinuncia. Quello che vogliamo non è tutto e subito, ma atti che sblocchino una situazione insostenibile e che diano il senso che si vuole imboccare una strada nuova.

Rinaldo Scheda conclude sottolineando due esigenze:

... quella di un rafforzamento unitario, che nel Sud è oggi in atto con l’apertura di nuove occasioni, forse senza precedenti, e che richiede da parte nostra di rompere ogni residuo indugio, di battere ogni settarismo, per nuovi avanzati rapporti unitari che son resi possibili dall’evoluzione in corso presso molti quadri delle altre organizzazioni. L’altra esigenza, valida per tutta la nostra organizzazione, è quella di un nuovo modo di far concorrere tutti i militanti alle scelte dell’organizzazione, il che circoscrive le responsabilità di ogni gruppo dirigente, ma arricchisce l’apporto, la partecipazione e la convinzione dei militanti all’azione generale del sindacato. E’ una questione di sviluppo della coscienza democratica, di formazione di massa delle decisioni, dibattito sulle forme di lotta; insomma di rendere protagonisti i lavoratori, con la massima attenzione e apertura alle nuove leve, con un rinnovamento delle nostre strutture, dei nostri quadri, della milizia sindacale nel senso più alto. La grande ondata di battaglie apertasi nel ‘68, dopo un crescendo di maturazione sindacale e operaia, è un’ondata che nel 1969 non potrà che estendersi; è la grande occasione per un passo avanti decisivo anche in questa direzione (da Rassegna Sindacale, n. 150, 8 dicembre 1968).