Sì, c’è una questione anche culturale che spiega la scarsa importanza che in Italia viene assegnata al diritto allo studio. “Se non dai la giusta priorità all’istruzione è chiaro che poi la conseguenza è che non investi risorse adeguate nel sostegno agli studenti”. È una convinzione realistica e amara questa di Federica Laudisa, ricercatrice di Ires Piemonte-Osservatorio per il diritto allo studio. Che sottolinea: “Basta guardare a come in Italia ci si è mossi rispetto alla strategia Europa 2020 che fissava entro quella data l’obiettivo del 40 per cento dei laureati tra i 30 e i 34 anni. Ebbene, l’obiettivo che il nostro paese si è dato è stato molto più modesto, il 27-28 per cento. Un obiettivo che è stato certo raggiunto, ma un po’ per caso, senza mettere in piedi politiche specifiche. Semplicemente, è aumentata la platea dei diplomati e dunque automaticamente chi si è iscritto all’università e laureato”. 

Il risultato è che solo il 27,6 per cento degli italiani tra i 30 e i 34 anni ha una laurea, rispetto alla media Ue del 40,3%. Da dove deriva secondo lei questo deficit culturale rispetto all’importanza dello studio universitario?

Da due pregiudizi, tutti e due infondati. Il primo è quello secondo cui ci sarebbero troppi laureati. Il che non è vero, basti pensare che in Europa siamo al penultimo posto: peggio di noi sta solo la Romania e anche la Turchia, che nel 2010 era sotto di noi, ci ha superato. Questo fatto ormai è un dato e non è più contestabile. Rimane forte, nonostante anche qui i dati non manchino, il secondo pregiudizio, quello secondo cui la laurea non serve. Ovviamente non è vero. L’Ocse, ma non solo, ci ha spiegato che chi ha un titolo di studio avanzato, ha tassi di occupazione più elevati, guadagna di più e regge meglio l’impatto delle crisi economiche. Ci sono studi che dimostrano anche che i benefici per chi studia di più interessano anche altri campi, come ad esempio la salute. Tuttavia secondo me c’è un dato ancor più grave rispetto al basso tasso di laureati.

Quale?

In Italia un terzo della popolazione ha al massimo la terza media contro una media europea del 16 per cento. Se poi articoliamo per regioni, al Sud si arriva addirittura al 40 per cento. È evidente che senza formazione e istruzione non si va da nessuna parte e duole constatare come trent’anni fa su questo c’era una maggiore sensibiità. Non dimentichiamo che abbastanza recentemente abbiamo sentito ministri della Repubblica sostenere che era più utile andare a scaricare cassette di pomodori che studiare.

Cosa occorre fare per cambiare questo trend?

Servono politiche mirate, differenziate: il diritto allo studio, che pure è importantissimo, da solo non basta.  Sicuramente occorre potenziare una formazione di carattere professionalizzante che vada incontro ai tanti giovani che non si ritrovano nell’offerta formativa dell’università, spesso troppo teorica e poco basata sull’esperienza sul campo. Insomma: percorsi rivolti ad acquisizione di competenze che possono essere poi spese meglio sul mercato del lavoro.

Per tornare al diritto allo studio, qualche passo avanti è stato fatto negli ultimi anni o siamo sempre al palo?

Passi avanti sono stati fatti, ma sono pur sempre passettini. I dati riferiti al 2019-20 ci dicono, ad esempio, che rispetto a tre anni fa le  borse di studio sono aumentate del 30 per cento. È anche cresciuta la copertura degli aventi diritto: siamo ormai alla media del 90 per cento, mentre fino a pochi anni fa eravamo all’80. Però attenzione, pur sempre di una media si tratta; il che vuol dire che, a fronte di regioni che garantiscono borse di studio al 100 per cento di chi ne ha diritto, secondo i dati provvisori di quest’anno in Sicilia e Campania il 20 e 40 per cento degli aventi diritto non l'ha ricevuta. Si tratta di due tra le regioni che avrebbero maggior bisogno di un sostegno adeguato per gli studenti. In totale in Italia ci sono 17 mila studenti che non beneficiano di borsa pur avendo i requisiti. Per il prossimo anno il fondo statale che finanzia le borse arriverà alla cifra record di 300 milioni di euro, il che è un bene, ma lo stanziamento è sempre frutto di interventi straordinari, integrazioni alla Finanziaria contrattate ogni volta. Mai una politica – e investimenti relativi – certi e programmati su una visione di lungo periodo che pure si potrebbe fare perché i trend sono ben noti.

Nel 2016 è stata introdotta anche la no tax area, uno strumento importante per esonerare dal pagamento delle tasse tanti studenti…

Si tratta in effetti dell’unico intervento vero pensato per incrementare l’iscrizione all’università delle fasce meno abbienti. Ed è un bene che con il decreto Rilancio questa area sia stata estesa da 13.000 a 20.000 euro di Isee.  Non abbiamo dati precisi, ma è un fatto che dal 2016 al 2019 la percentuale di studenti totalmente esonerati è passata dal 16 al 27 per cento. C’è però un problema: questa misura non è stata adeguatamente pubblicizzata. Molto spesso famiglie e studenti neanche sanno di questa opportunità.

La mancanza di politiche e investimenti adeguati nel diritto allo studio è responsabilità unica del governo centrale o crede che anche le Regioni debbano fare di più?

È un tema molto complesso. Il rapporto Stato-Regioni, mal congegnato già nella Costituzione, è diventato ancora più confuso con la riforma del titolo V.  Ancora oggi non è chiaro chi abbia la competenza su diritto allo studio. Certamente la Carta dice che lo Stato deve stabilire i livelli essenziali delle prestazioni, cosa che però non è ancora stata fatta. Personalmente sono convinta che nelle politiche per il diritto allo studio non hanno senso articolazioni territoriali; non esistono neanche in uno Stato federale come la Germania. Insomma: ci deve essere una politica centrale, certamente in collaborazione con le Regioni e anche con alcune differenziazioni territoriali, che non possono però essere sulle borse di studio. Non è giusto che in alcune Regioni se hai un Isee a 24.000 euro prendi la borsa mentre in altre no.