Dalla questione meridionale alla cassa del Mezzogiorno, dai cicli di programmazione dei fondi europei al recentissimo Piano Sud, da decenni è presente nel dibattito pubblico la necessità di colmare un divario tra il Nord e il Sud del Paese, che rallenta la crescita e lo sviluppo dell’Italia. Eppure è sotto gli occhi di tutti che le disuguaglianze economiche, sociali, di infrastrutturazione materiale e immateriale, invece di diminuire sono aumentate nel tempo e ancor di più durante questa emergenza sanitaria; e il nostro Sud resta tra le aree dell’Europa con più fattori di arretratezza. Perché?

Perché le risorse economiche non sono state fino a oggi sufficienti? Per certi versi sì, se si considera che in dieci anni - tra il 2008 e il 2018 – gli investimenti ordinari della pubblica amministrazione sono stati più che dimezzati al Sud, passando da 21 miliardi a 10,3 miliardi. Anche per questo nel 2017 con il decreto Mezzogiorno è stata introdotta la cosiddetta clausola del 34%: con l’obiettivo dichiarato di perseguire principi per il riequilibrio territoriale: a partire dalla legge di bilancio del 2018, le amministrazioni centrali devono destinare alle regioni del Sud una quota della loro spesa ordinaria in conto capitale proporzionale alla popolazione, che è pari per il Mezzogiorno appunto al 34%. Le risorse ordinarie vengono quindi orientate al rispetto del principio di equità, per far sì che il cittadino, a qualunque area territoriale appartenga, possa potenzialmente disporre di un ammontare di risorse equivalente, mentre le risorse della politica aggiuntiva di fonte europea hanno la funzione di garantire la copertura del divario ancora esistente, dando attuazione all’articolo 119 della Costituzione.

Ma parlando di risorse provenienti dai Fondi europei, viene spontanea una seconda domanda, sul perché prevalgano ancora così forti gli squilibri territoriali al Sud. Perché le amministrazioni pubbliche regionali e locali nel Mezzogiorno, più che nelle altre parti del Paese, presentano un elevato grado di inefficienza nella capacità di progettazione, ma ancor di più nella messa a terra dei progetti? Anche in questo caso la risposta è sì: sulla stampa nazionale e non solo tra gli addetti ai lavori sono stati denunciati numerosi casi in cui risorse europee sono rimaste inutilizzate al Sud. Spesso sono tornate in Europa o alle amministrazioni centrali, talvolta sono state reindirizzate in programmi operativi complementari o in fondi specifici basati sull’utilizzo di strumenti finanziari che hanno portato all’esternalizzazione delle procedure di gestione a soggetti privati, soprattutto del settore del credito. Una sorta di deblacle nell’amministrazione delle risorse pubbliche, da qualcuno definita anche una "fuga dalla responsabilità" da parte delle istituzioni competenti, nell’esercizio del proprio ruolo sul versante della programmazione, progettazione e realizzazione degli investimenti.

Ora ci troviamo a riprogrammare le risorse 2014-2020 sia per l’emergenza, sia per consentire l’utilizzo effettivo di quanto ancora ci resta nell’ambito di questo ciclo programmatorio (che non è poco) e a progettare il piano nazionale per la ripresa e la resilienza finanziato nel Next Generation Eu, coincidente con l’avvio della nuova programmazione 2021-2027. In questa fase siamo chiamati a affrontare il vero nodo politico: come riuscire a investire l’ingente mole di risorse, che arriveranno soprattutto al Sud, per risanare disuguaglianze e divari, nella consapevolezza che abbiamo amministrazioni pubbliche scarsamente attrezzate e il cui gap nelle capacità gestionali non potrà essere sanato in breve tempo. E nella consapevolezza, ripetuta più volte da molti, che questa è un’occasione storica che non possiamo perdere e che probabilmente non si ripresenterà.

Questo è il tempo anche per le organizzazioni sindacali, che fanno parte a pieno titolo del partenariato economico e sociale previsto negli accordi e nei regolamenti dei fondi strutturali, di rivendicare un maggiore livello di coinvolgimento. Un coinvolgimento che non si può limitare a un ruolo di mera consultazione, ma deve essere esercitato anche con un mandato pieno attraverso il voto nei luoghi, come i comitati di sorveglianza, dove si definiscono le priorità politiche di investimento. Soprattutto al Sud, dove le amministrazioni pubbliche fino a oggi non hanno garantito una vera e piena partecipazione a questi processi, occorre agire questa rivendicazione, perché le organizzazioni sindacali, portatrici dei fabbisogni e degli interessi del mondo del lavoro, devono poter esercitare la propria funzione di negoziazione nei territori e possono fare la differenza nella programmazione delle politiche e nella loro messa a terra. È una responsabilità che impone anche un rafforzamento delle nostre competenze e della nostra capacità negoziale su questi temi.

In questo quadro si innesta il Piano Sud che il governo ha lanciato a febbraio 2020, in fase pre-Covid, e che è entrato oggi a far parte della progettualità che verrà finanziata con il piano nazionale per la ripresa e la resilienza. E si inseriscono anche le scelte operate con i decreti di urgenza, come quella emblematica della fiscalità di vantaggio, la cosiddetta "decontribuzione Sud". Nel piano ci sono delle priorità condivisibili, come la lotta alla povertà educativa, il potenziamento delle infrastrutture sociali e materiali (viabilità e trasporti, reti digitali) per favorire inclusione e connessione, la svolta ecologica e la frontiera dell’innovazione. Ma quello che oggi vediamo messa a terra è soltanto la decontribuzione per le imprese, sganciata da un piano di riforme su vasta scala e non gestita sulla base di un sistema di premialità che eviti un sostegno a pioggia e punti invece sulla valorizzazione di cluster e filiere produttive in grado di far crescere concretamente i livelli occupazionali. Perché in sé la fiscalità di vantaggio non può essere considerata positiva o negativa, ma può diventare un limite se come oggi è un intervento "senza contesto"; può viceversa diventare una risorsa se funzionale al raggiungimento di un programma di investimenti pubblici, basato su sostenibilità, cantierabilità e realizzazione concreta degli interventi.

Altrimenti si sentirà ancora risuonare lo slogan “senza il Sud l’Italia non riparte”, mentre nei fatti il nostro Sud resterà ancora al palo aspettando investimenti, risorse, crescita economica e sociale. È necessario, a maggior ragione dentro la pandemia che il nostro Paese sta vivendo, far ripartire il Mezzogiorno con un protagonismo diverso di tutti gli attori coinvolti, a partire dal mondo del lavoro e da chi lo rappresenta.