Finito il massacro della Prima guerra mondiale, in molti paesi europei, anche sull’onda delle notizie rivoluzionarie provenienti dalla Russia, scoppiano numerose rivolte popolari. L’Italia registra un periodo di accesa conflittualità sociale che passerà alla storia come il biennio rosso. Dopo la firma nel febbraio 1919 dei primi contratti nazionali che sanciscono la conquista delle otto ore giornaliere (il 20 febbraio 1919 si raggiunge un accordo con l’Associazione industriali di categoria che prevede la riduzione di orario a 8 ore giornaliere e 48 settimanali, il riconoscimento delle Commissioni interne e la loro istituzione in ogni fabbrica, la nomina di una Commissione per il miglioramento della legislazione sociale e di un’altra per studiare la riforma delle paghe e del carovita), con l’estate si entra nel vivo della mobilitazione.

Protagonisti di questa fase sono i braccianti nelle campagne, mentre nell’industria operano i Consigli di fabbrica, le nuove strutture di rappresentanza operaia, promotrici di una politica rivendicativa fortemente antagonista, centrata sul controllo dell’organizzazione del lavoro e della produzione. Scriveva l’11 ottobre 1919 Antonio Gramsci su L’Ordine Nuovo:

L'organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del Lavoro, attraversa una crisi costituzionale simile per natura alla crisi in cui vanamente si dibatte lo Stato democratico parlamentare. La crisi è crisi di potere e di sovranità. La soluzione dell'una sarà soluzione dell'altra, poiché, risolvendo il problema della volontà di potenza nell'ambito della loro organizzazione di classe, i lavoratori arriveranno a creare l'impalcatura organica del loro Stato e vittoriosamente la contrapporranno allo Stato parlamentare (...) La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell'attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione. Poiché nel Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al contributo che ogni mestiere e ogni branca di lavoro dà alla elaborazione dell'oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l'istituzione è di classe, è sociale. La sua ragion d'essere è nel lavoro, è nella produzione industriale, in un fatto cioè permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un fatto cioè transitorio e che appunto si vuole superare. Perciò il Consiglio realizza l'unità della classe lavoratrice, dà alle masse una coesione e una forma che sono della stessa natura della coesione e della forma che la massa assume nell'organizzazione generale della società

Secondo Antonio Gramsci il consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario

 Nell'uno e nell'altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più "civile" degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell'organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l'economia comunista rappresenta sull'economia capitalistica. Il Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall'esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrificio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice della storia.  L'esistenza di una organizzazione, nella quale la classe lavoratrice sia inquadrata nella sua omogeneità di classe produttrice, e la quale renda possibile una spontanea e libera fioritura di gerarchie e di individualità degne e capaci, avrà riflessi importanti e fondamentali nella costituzione e nello spirito che anima l'attività dei sindacati.  (...) L'esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia. Gli operai portano nel sindacato questa nuova coscienza e dalla semplice attività di lotta di classe, il sindacato si dedica al lavoro fondamentale di imprimere alla vita economica e alla tecnica del lavoro una nuova configurazione, si dedica a elaborare la forma di vita economica e di tecnica professionale che è propria della civiltà comunista. In questo senso i sindacati, che sono costituiti con gli operai migliori e più consapevoli, attuano il momento supremo della lotta di classe e della dittatura del proletariato: essi creano le condizioni obiettive in cui le classi non possono più esistere né rinascere (...)  

Nell’autunno del 1920, dopo una dura vertenza culminata con l’occupazione delle fabbriche che coinvolgerà più di 400.000 metallurgici in tutta Italia e altri 100.000 di altre categorie, la firma del lodo Giolitti tra Governo, CGdL e sancirà la fine al biennio rosso. “Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni”, sarà il commento del presidente del Consiglio.

“Come classe - scriverà al contrario anni dopo, nell’ottobre 1926, Antonio Gramsci su l’Unità - gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all’altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l’immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista”.