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L'indagine

Lo sfruttamento è sempre di moda

Foto: Artem Beliaikin da Pexels
Arianna Longo
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Il report 2020 della campagna Abiti Puliti. Nessuno dei 40 grandi marchi sotto inchiesta assicura un salario dignitoso alle operaie e agli operai delle loro catene di fornitura

La Clean Clothes Campaign (campagna Abiti Puliti) pubblica il nuovo report "Fuori dall’ombra": riflettori puntati sullo sfruttamento nell’industria della moda. L'indagine, condotta da una rete globale di ricercatori e sindacati, ha rivolto un sondaggio a 108 marchi e rivenditori di 14 Paesi, ma ha anche intervistato ed esaminato le buste paga di 490 dipendenti di 19 fabbriche tessili tra Asia ed Est Europa. Sono loro a produrre gli abiti per 40 aziende diverse, tra cui Adidas, Nike, Hugo Boss, Gucci, Benetton, Zara. Nessuna, stando al report, paga un salario dignitoso alle operaie e agli operai delle loro catene di fornitura.

L'industria dell'abbigliamento è sotto i riflettori dall'11 settembre 2012, quando a Karachi (Pakistan) un incendio divampò nella fabbrica tessile Ali Enterprises, uccidendo oltre 250 dipendenti. Da allora, nonostante promesse e proclami, sembra non essere cambiato nulla. Nei Paesi in cui i grandi marchi della moda hanno delocalizzato la produzione, il salario minimo legale è inferiore al salario di sussistenza, cioè al reddito necessario per provvedere ai propri bisogni essenziali e a quelli delle persone a carico. La cifra del salario di sussistenza dovrebbe corrispondere a una settimana lavorativa di massimo 48 ore e andrebbe calcolata al netto di tasse, bonus, indennità o straordinari.

Nessuna di queste condizioni viene rispettata negli stabilimenti sotto inchiesta. Tra i dipendenti intervistati, 50 lavorano per un minimo di 27 giorni al mese, 23 di loro per 30 giorni. Per arrivare a un salario dignitoso (a volte, anche solo per non essere licenziati) operai e operaie devono raggiungere obiettivi di produzione irrealistici, lavorando a ritmi inconciliabili con le misure necessarie a garantire la propria salute e sicurezza. In alternativa, devono mettere in conto diverse ore di straordinari. In India, ad esempio, chi lavora in una fabbrica tessile per un grande marchio della moda (spesso occidentale) fa in media 23 ore di straordinari al mese, in Cina 122. In genere, gli straordinari dovrebbero essere retribuiti da un minimo del 150% a un massimo del 250% in più rispetto alla tariffa oraria di base. In India, Cina e Indonesia sono retribuiti come l'orario di lavoro ordinario.

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In questo quadro di sfruttamento selvaggio, non tutti sono sfruttati allo stesso modo. Le operaie dell'industria dell'abbigliamento, l'80% della forza-lavoro del settore, sono sottoposte a condizioni molto più dure dei loro colleghi uomini. Subiscono abusi fisici e verbali più frequenti, a cui si aggiungono – immancabili – le molestie sessuali. Il matrimonio o anche solo l'intenzione di avere dei figli costituiscono un forte deterrente per assumere una donna (non un uomo) perché è su di lei che, si presume, graveranno i lavori domestici e di cura che una famiglia comporta. La busta paga di un'operaia tessile è più leggera di quella di un operaio: in India, ad esempio, il divario retributivo è del 12%. Spesso la discriminazione non si traduce solo nella quota del salario, ma anche nel criterio in base a cui è commisurato: quello orario prevale tra gli uomini, quello a cottimo tra le donne.

Per di più, parecchi brand si sono avvalsi della crisi da Covid-19 come pretesto per violare i termini contrattuali, annullando ordini pregressi e futuri, decurtando o dilazionando i pagamenti ai fornitori. A farne le spese sono state però le lavoratrici e i lavoratori delle fabbriche, licenziati o sospesi senza la benché minima tutela. Ad aprile 2020 in Bangladesh l'industria tessile ha tagliato dieci milioni di posti di lavoro. In realtà, già dall'inizio del 2019 il salario veniva corrisposto ai dipendenti con un ritardo sistematico di un mese o due. Il motivo? Le aziende, in competizione tra loro, spingono i fornitori a una globale corsa al ribasso. Si deve produrre sempre di più e a costi sempre inferiori. A rimetterci non è solo la qualità delle merci, ma anche e soprattutto operai e operaie: costretti a lavorare per turni estenuanti, sottoposti a insulti e vessazioni, senza tutele e con un salario da fame.