Paliano è una macchia bianca su un prato verde. A riempire quella macchia sono arrivati da mezza Italia, ragazzi soprattutto, giovani in età da liceo, famiglie con bambini al seguito. La comunità capoverdiana c’è tutta. C’è l’Italia delle istituzioni con le fasce tricolori e con il presidente del Consiglio. C’è l’Italia intera. Quella sana. Quella che non resta indifferente. Willy è il ragazzo elegante con il farfallino ritratto nella foto che campeggia sotto il palco allestito nel campo sportivo del paese. Willy è il ragazzo che la notte tra sabato e domenica scorsa è stato pestato a morte e che oggi è chiuso nella bara color legno che è poco dietro quella foto.

Prima dell’arrivo di quella bara, il campo è muto. Pieno e muto. Poi la folla lo applaude. Un ultimo abbraccio a lui, uno ancora alla sua famiglia. A salutarlo sono così tanti che lo stadio non basta. Pian piano si riempiono anche i terreni attorno. Mascherine indosso e distanza di sicurezza imposta dalla pandemia. Entrare tutti non si può e allora ci si sposta, si chiede la solidarietà dei proprietari dei prati che costeggiano il campo. Si aspetta sotto il sole o riparati dall’ombra di un melograno.

Chi si conosce si ritrova, chi non si conosce si scopre. “Siamo venuti da lontano – dice un ragazzo - capisci che è una faccenda troppo grave. Non si poteva restare a casa”. E dopo che per mesi abbiamo sentito parlare di razze e colore della pelle, qui i colori non fanno differenza. Non c’è rabbia. C’è dolore. E non è solo dolore: è anche speranza. La stessa che si respira durante l’omelia che parla di amici da ritrovare e di nemici per cui pregare. Che descrive un giovane aiuto-cuoco di ventuno anni che ha dato la vita per gli altri. Letteralmente. Perché Willy è stato ucciso per aver cercato di sedare una rissa. “La verità ci rende liberi” – dice il vescovo. Ma la verità sa essere anche impietosa. E la verità di Willy è che “il culto del corpo, dello sballo, dell’indifferenza, della superficialità”, la violenza cieca – che in questi anni è stata alimentata ed è cresciuta - hanno preso il sopravvento e spezzato un ragazzino che sognava un futuro da chef e amava il calcio, un ragazzino perbene.

Quando il vescovo pronuncia queste parole, gli sguardi si abbassano perché il suo è un monito rivolto a tutti, singoli cittadini e istituzioni, presidi sociali e comunità: “Impegniamoci a riallacciare un patto educativo”- dice ricordando l’etimologia della parola che in latino voleva dire condurre fuori, far uscire. Senza quel patto, senza la nostra presenza che si ribella all’indifferenza, senza l’impegno di tutti “a umanizzare il mondo”, Willy rischia di diventare l’ennesima vittima a cui intitolare una strada, una scuola o una piazza. E persino ora per gli assassini – se davvero vogliamo cambiare – serve educazione: un percorso che riabiliti i colpevoli, che li conduca fuori da quel baratro dove hanno vissuto e che li ha portati a picchiare fino a togliere il respiro. A questo deve servire il carcere – conclude l’omelia.

È una giornata di sole. Fa caldo come se fosse piena estate. Ma il cielo è quello di settembre. I palloncini bianchi liberati alla fine della cerimonia sfuggono via veloci. Si resta seduti. Di nuovo in silenzio. C’è l’eco di quelle parole che si rispecchiano nella compostezza di una madre, di un padre e di una sorella che hanno appena detto addio al loro Willy. Qui parliamo tutti la stessa lingua, piangiamo tutti le stesse lacrime e abbiamo tutti lo stesso sangue.