Denatalità, emigrazione e calo dell’immigrazione, in misura diversa, contribuiscono al depauperamento e all’invecchiamento della popolazione italiana. Le regioni più colpite, lo afferma l’Istat, sono Molise, Calabria e Basilicata, ma non sono le uniche. Il dato che più colpisce è quello che parla di soli 420.170 nuovi nati nel 2019, superando con 19 mila bambine e bambini in meno il limite negativo già segnato nel 2018. Inoltre, il saldo migratorio in Italia è di appena 152.000 persone. Questo il quadro dell’anno passato, al netto quindi delle possibili conseguenze della crisi dovuta alla pandemia da Covid-19. Per invertire la tendenza è necessario indagare le cause di quanto sta accadendo. Abbiamo chiesto quindi se siano da imputare solamente a fattori economici al sociologo Enrico Pugliese, studioso dei sistemi di welfare: 

Certo che no, ma il quadro economico spiega molto. Iniziamo col dire che se da una parte diminuiscono le nascite dall’altra aumentano gli anziani, che in sé non è un dato negativo perché significa che la gente sta meglio, ma il problema è quello che costa in termini di composizione della popolazione, di ragazzini e bambini che mancano. I dati sono stati leggermente corretti negli anni scorsi dalla componente straniera, ma anch’essa ha cominciato a fare meno figli. La questione è comunque molto seria e vede all’origine il fatto che non ci sono politiche per la famiglia: in Italia abbiamo una forte ideologia familista forte senza avere però le politiche che l’accompagnino. Questo inoltre fa sì che sia spostata in avanti l’età della procreazione.

Quanto incide invece un mercato del lavoro insufficiente?

Infatti, l’altra questione fondamentale è che non si trova lavoro. Abbiamo tassi molto elevati di disoccupazione della popolazione giovanile e bassi tassi di occupazione delle donne. C'è sia disoccupazione in senso esplicito, sia fuoriuscita dal mercato del lavoro. E’ innegabile che le fasce più sfortunate della popolazione fanno più figli e questo fa parte di un modello culturale, ma al Sud, dove la questione comincia a farsi seria, le cose non stanno più così, perché anche lì le nascite iniziano a diminuire, anche perché vengono a mancare le persone in età riproduttiva. 

Si riferisce al perdurante flusso migratorio interno che vede spostarsi le persone dal sud al nord della penisola? 

Si, le regioni meridionali sono in una condizione particolare che è determinata sostanzialmente da un flusso migratorio qualitativamente complesso che si è accelerato verso il Nord, verso la Lombardia, il Veneto, ma anche il Lazio, dove c’è la Capitale che esercita una forte attrattiva. L'unica regione che produce un’emigrazione significativa verso l'estero è la Sicilia. Il tutto produce un depauperamento demografico del Mezzogiorno.

Ci sono motivi della denatalità che vanno oltre i fattori economici?

Certamente i modelli di vita sono cambiati. C'è anche una maggiore autonomia femminile dovuta a una maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro e così, in assenza di servizi sociali, si procrastina sempre l'età delle unioni. Poi, quando nasce un bambino, le donne sono spesso costrette a lasciare il lavoro e quindi si tratta sempre di questioni economiche e di politiche sociali insufficienti. Bisogna potere occuparsi dei figli decentemente senza abbandonarli ai nonni, che poi sono sempre più assenti. La perdita di popolazione è quindi dovuta al combinato disposto di denatalità ed emigrazione che fa venire meno le fasce in età fertile. 

Quali sono e soluzioni?

L'arma più potenti sono i servizi. E, se vogliamo mantenere per esempio nel Mezzogiorno le ragazze i ragazzi in età fertile, bisogna che ci siano politiche occupazionali. Gli ultimi governi hanno istituito i bonus bebè (anche se sono andati diminuendo) e questo poteva essere un modesto gesto simbolico e un incentivo alla natalità, ma se non ho gli asili nido non risolvo il problema con le baby-sitter. Non si riduce la denatalità con le buone intenzioni.