Il 3 agosto scorso, tra le note della fanfara, sotto l’arcobaleno e le  scie delle frecce tricolori, è stato il giorno dell’atteso taglio del nastro sul nuovo ponte San Giorgio di Genova. Il progetto da 200 milioni di euro, donato da Renzo Piano dopo il crollo del viadotto Morandi è stato realizzato in soli sedici mesi da una cordata formata da Salini-Impregilo (ora Webuild), Fincantieri e Italferr. I lavori sono iniziati il 14 dicembre 2018, l’ultima campata è stata posta in opera il 28 aprile scorso, poi i controlli statici, infine l’inaugurazione. Tutto in un lasso di tempo brevissimo, frutto dell’oramai famoso “modello Genova”, un’eccezione nel panorama burocratico italiano. L’appalto è stato aggiudicato senza gara, si sono saltate le normali procedure, il commissario (il sindaco Bucci) ha sempre avuto mani libere, si sono evitati bandi, ricorsi e s’è aggirato buona parte del Codice degli appalti. Almeno questa è la vulgata diffusa da chi quel modello lo vorrebbe utilizzare per tutte le grandi e medie opere pubbliche italiane. Magari per eludere del tutto la legge.

Doni, tetti e progetti  
A quanto pare, infatti, non è tutto oro quel che luccica. Lo va ripetendo da mesi la Fillea. “Il modello Genova ha funzionato grazie a un potere derogatorio affidato al commissario, a imprese strutturate con partecipazione pubblica, e all’assenza di limiti di spesa – spiega il segretario generale del sindacato degli edili Cgil, Alessandro Genovesi -. L'effetto combinato di questi fattori ha permesso di accelerare diversi passaggi nella parte esecutiva, ma oggettivamente è un'opera particolare, difficilmente replicabile”. La fase della progettazione, in effetti, è stata accelerata dal fatto che il progetto è stato donato da Renzo Piano, quindi non si è svolto un concorso di progettazione. “Ovviamente questo ha ridotto molto i tempi - continua Genovesi -, ma non credo che Piano sia disposto a regalare altri 630 progetti, quante sono le grandi opere in fase di esecuzione in Italia”. C’è poi da chiedersi se le due imprese statati, Salini-Impregilo e Fincantieri, abbiano interesse a impegnarsi in tutti gli altri lavori. Cantieri che, a differenza del San Giorgio, avrebbero dei tetti di spesa ben più stringenti. Non è un caso se il ponte genovese sia costato il 30% di più rispetto alla media. E poi c’è una questione banalmente tecnica: “Si è ricostruito un viadotto che era crollato, non bisognava realizzare un nuovo tracciato. Quindi non c’è stato bisogno di chiedere una serie di permessi, come quelli ambientali”. Tutti aspetti che hanno permesso di accelerare, e di molto, la ricostruzione.

Modelli e contratti
In effetti, il tanto decantato modello Genova, nato sull’onda emotiva di una catastrofe che ha ucciso 43 persone e lasciato di sasso un intero Paese, avrebbe potuto mettere in crisi le norme contenute nel Codice degli appalti. Invece non è successo. Perché, nella pratica, molti paletti contenuti nel codice sono stati comunque applicati grazie alla contrattazione. “Insieme agli altri sindacati, abbiamo firmato diversi importanti accordi per accompagnare i lavori”, spiega Federico Pezzoli, segretario generale della Fillea Genova. Il primo con la struttura commissariale, coinvolgendo anche la Prefettura, per porre un argine ai rischi di infiltrazioni malavitose nei lavori: “Un accordo che ha funzionato, e che ha respinto un paio di tentativi che pure ci sono stati”. Poi c’è stata l’intesa che ha obbligato le aziende ad applicare il contratto nazionale dell'edilizia per tutte le maestranze. E ancora, un accordo salariale che ha permesso di introdurre una la voce aggiuntiva delle indennità di quota per i lavoratori impegnati a 40 metri di altezza: “Operai che per due anni sono stati più forti del vento, del freddo, del caldo, con tutti i rischi connessi”. Infine è arrivato il Covid, e quindi “un protocollo anti-contagio che ha tutelato nel miglior modo possibile i lavoratori. Così l’attività non si è mai fermata, ma sempre nel pieno rispetto della sicurezza”. 

“Il commissario Bucci in teoria  avrebbe potuto operare in deroga al Codice degli appalti - conferma Genovesi - ma nella pratica ha dovuto reintrodurre molte delle sue norme. Perché il rispetto dei contratti, della sicurezza e la difesa dalle organizzazioni criminali incidono positivamente sulla qualità del lavoro, e quindi su quella dell’opera. Il modello Genova è stato sbandierato per motivi perlopiù mediatici, gli addetti ai lavori lo sanno benissimo. Per molti versi, invece, quel modo di lavorare ricorda i più ciò che è successo per l’Expo di Milano: una deroga mirata con un forte sistema di relazioni con i sindacati e con gli altri stakeholder”. Tant’è vero che il recente decreto semplificazioni modifica il decreto sblocca-cantieri, che stato definito “la madre del modello Genova”, introducendo un modello commissariale “che non è quello del Ponte San Giorgio”. I 4-5 articoli del codice non derogabili sono infatti gli stessi reintrodotti dal commissario Bucci nei tavoli con il sindacato. 

Genova per noi 
In ogni caso, il plauso della Fillea va soprattutto ai lavoratori. “Genova è caduta, è stata ferita, ma grazie alla tenacia e alla professionalità degli operai liguri e trasfertisti, siamo riusciti a rialzarci”, afferma ancora Federico Pezzoli. “Per me è stato un arricchimento professionale, ma anche un’esperienza umana irripetibile – ricorda Tommaso De Simone, operaio calabrese in trasferta. Dopo quelle 43 vittime non è stato facile mettere i piedi sul ponte. Lavorare in un cantiere così particolare dopo quella tragedia è stato emozionante”. “Da ligure d’adozione questa emozione l’ho sentita ancora di più – afferma un altro operaio, Antonio Spanò -. Lavorare con tanti colleghi provenienti da tutta Italia, e non solo, è stata una splendida esperienza, sia professionale che emotiva. Abbiamo lavorato interrottamente, gomito a gomito, sapendo che stavamo facendo qualcosa di importante, sia per la città che per tutto il Paese”. 

L’idea di un modello Genova nasce proprio sull’onda emotiva di quella tragedia. “Poi man mano che si andava avanti ci si rendeva conto che se si voleva tenere insieme la velocità con la qualità del manufatto, e quindi del lavoro, alcuni aspetti andavano implementati o corretti - conclude Genovesi -. In molti non conoscono ciò che è successo in questi mesi, né il processo che ha portato alla ricostruzione. Questa esperienza ha invece dimostrato che quando ci sono imprese sane, in questo caso statali, e quando c’è un lavoro di qualità, i cantieri diventano più veloci, e si fanno per bene. Insomma, contano molto di più le politiche industriali e la solidità d’impresa rispetto a ipotetiche deroghe sugli appalti”.