“I contributi? Non esistono”. A dircelo con la fatalità di chi da tempo ha imparato a convivere con questa realtà, è Luca Farenga, diplomato all’Isef e collaboratore sportivo, che da oltre vent’anni lavora in questo ambito ricoprendo ruoli tecnici ma anche di dirigenza. 42 anni, da dieci ha deciso di sottoscrivere un fondo pensione. Lo chiama integrativo, anche se nel suo caso non integra un bel niente. Versa una quota mensile, ma i calcoli non presagiscono nulla di buono per la sua vecchiaia.

Luca è uno di quel milione e più collaboratori sportivi che sono alle prese con gli stessi problemi. “Io sono stato fortunato, la mia famiglia ha difeso la mia scelta e mi ha aiutato a portarla avanti. Ma ne ho visti tanti di colleghi con la passione vera che hanno mollato perché hanno vinto concorsi o trovato lavori più stabili in altri settori”.

Come dargli torto, non dev’essere facile metter su famiglia con una specie di regolamento che prevede “tutto esentasse fino ai 10 mila euro di reddito. Fai il cumulo con tutto ciò che guadagni e se dichiari di superare quella cifra ti detraggono una piccola quota. Negli anni questo ha prodotto l’effetto che nessuno dichiarasse guadagni oltre i 9.999 euro: raggiunto questo importo, si continuava in nero. Ora tutto passa per bonifico e quindi questa cosa non può più succedere”.

Come funziona il rapporto con il datore di lavoro? “In oltre vent’anni ho collaborato con associazioni sportive come insegnante di ginnastica artistica, poi di tiro con l’arco, poi al mare con il windsurf e gli sport nautici. Il mio lavoro è sempre stato regolato con contratti di collaborazione, in pratica forme di rimborsi del tutto privi di contributi, di tassazione e di tutele. Ad esempio, in una scuola ho lavorato per quasi 18 anni, sempre con la stessa associazione. Li ero trattato praticamente alla stregua di un lavoratore dipendente senza esserlo: aprivo e chiudevo la palestra, parlavo con le famiglie dei ragazzi, avevo degli orari e dei periodi di chiusura – fortunatamente retribuiti grazie a un accordo fatto all’inizio, ma normalmente non lo sarebbero stati –, ma non avevo alcuna tutela. Il contratto durava 9 mesi, l’estate non venivo pagato. Per dire, se ti ammali ti chiedono di trovare un sostituto e di pagarlo. Sarà per questo che in vent’anni ho fatto sì e no 15 giorni di malattia: quando senti arrivare la febbre, ti copri e prendi subito un antivirale. Dal punto di vista del diritto del lavoro, il quadro è drammatico”.

Precarietà a tempo indeterminato. “Sei sempre a rischio del posto di lavoro, non devi entrare in contrasto con il presidente della tua associazione. Di recente sono stato chiamato da una società sportiva di Roma molto grande, la Polisportiva Lazio, ho fatto una piccola trattativa per trovare un accordo, e poi è stata una stretta di mano con il nuovo presidente a sancire l’intesa. Ho salutato la mia vecchia società dopo 18 anni di duro lavoro, senza ricevere alcuna forma di tfr. Ho rischiato lasciando il mio vecchio posto senza garanzie, sulla scorta di una semplice stretta di mano e di un appuntamento a settembre, quando ricomincia la stagione. Poi effettivamente quel settembre è arrivato e l’accordo è stato onorato. Ma non puoi dire che sei un dipendente. Al massimo ti fanno firmare un foglio in cui dichiari di metterti a disposizione, ma non ci sono veri contratti, perché le associazioni sportive per mantenere un regime agevolato si devono comportare così. Devono avere soci, non dipendenti”.

E il covid? “Abbiamo chiuso tutti, anche oltre il lockdown. Abbiamo fatto tutte le lezioni online possibili ed è stato un modo per stare vicino ai ragazzi. Rientrati a giugno potevamo mettere un allievo ogni 20 metri quadri in 200 metri di palestra, passando, in ginnastica artistica, da 40 bambine in tre corsi a 9 e un istruttore. Dobbiamo sanificare continuamente gli attrezzi e questo porta via tempo. Indossare guanti e mascherine. Adesso sono a Vieste, faccio la stagione al mare, ma se penso a settembre mi viene il dubbio che possa perdere il lavoro per un anno: se la palestra continua ad avere tali restrizioni la vedo dura. O magari scelgono di aspettare a riprendere fino a ottobre e allora a settembre non verrò pagato. O magari dimezzano le ore e allora prenderò la metà. Se la Lazio decidesse di chiudere, io perderei il lavoro con una telefonata. E senza tfr. Anche se mi occupo di tutto, programmazione gare, formazione, rapporto con i genitori. E sto anche prendendo l’ennesimo brevetto, tutto di tasca mia”.

E cosa pensi della riforma dello sport in discussione? “Il timore è che, se non si fa attenzione, rischia di saltare il banco. Se oggi costo mille euro al mese e domani devono pagarmi i contributi, cambia tutto, orari, lavoro e stipendio. Devono trovare benefici e una strada sostenibile”.