“Maestranze”. A loro è dedicata l’iniziativa che la Cgil tarantina, insieme alle categorie del tessile, la Filctem, e dei servizi, la Filcams, ha organizzato per domani a Martina Franca, chiamando a raccolta imprese e istituzioni del territorio per confrontarsi sui grandi temi della moda e del turismo. In un momento in cui alla crisi strutturale di uno dei distretti tessili italiani d’eccellenza, si aggiunge la crisi nata dal contagio. Il rischio è quello di lasciare un deserto là dove, fin dalla metà dell’800, gli opifici avevano garantito un lavoro e un futuro a tutti.

“Tutto ebbe inizio con i cappottari – ci racconta Giordano Fumarola, leader locale della Filctem - industrie embrionali di sarti che confezionavano cappotti destinati alle fiere del Meridione. Lo sviluppo vero e proprio, con la trasformazione di questi piccoli laboratori in grandi industrie tessili, arriva negli anni Settanta. Nasce allora, anche a Martina Franca, la virtuosa catena di montaggio che rende la materia prima prodotto finito, attraverso le fasi del taglio della pezza, del cucito e della rifinitura. Tra gli anni Ottanta e Novanta si consolida, esplode”.

Sono quelli gli anni d’oro del distretto. L’abito a festa esce rifinito dagli opifici per vestire le maestranze che godono di garanzie e prospettive. La manodopera, quasi tutta femminile, compie presto la sua scelta verso il mondo delle confezioni: la professione antica ti porta a lasciare la scuola a 14 anni e a seguire il ritmo della carriera, anticipando le fasi della vita, l’età del matrimonio, il primo figlio, il mutuo. Ricordi di un tempo e di un lavoro che fu.

“Oggi – ci spiega Giordano Fumarola – tutto questo non è più possibile. Le persone non hanno più queste certezze. Il mondo del tessile è precario, stagionale, per alcune aziende, quelle che fanno piumini, ad esempio, persino mono stagionale. Molte imprese hanno perso i mercati più importanti o lavorano solo per il mercato russo e solo per una parte dell’anno. Il ricorso agli ammortizzatori sociali è sempre più ampio. La coperta è corta: poco lavoro, molto sostegno al reddito, tanti imprenditori chiudono per non riaprire più”.

Una storia che si ripete, chissà in quanti distretti del Paese in cui un tempo l’eccellenza era all’ordine del giorno e farne parte, come maestranze, era far parte di una élite. I numeri danno i contorni di questo quadro: a metà degli anni Novanta, l’Ilva a Taranto aveva 15 mila addetti e dopo il siderurgico il secondo grande datore era la filiera del tessile abbigliamento di Martina Franca: 200 aziende, 9 mila dipendenti. Oggi le aziende sono 80, i dipendenti 3 mila, alcuni precari o stagionali, alcuni indeterminati ma spesso soggetti agli ammortizzatori. E le grandi imprese sono poche: tanti sono opifici con padre e figlia a bottega.

Cosa è successo? “Il primo cedimento – ricostruisce Giordano Fumarola – è arrivato per effetto della caduta del muro. Si è iniziato a ragionare nell’ottica della globalizzazione dei mercati, a giocare con il costo del lavoro. A metà degli anni Novanta sono arrivate le prime delocalizzazioni a Est. Poi è scesa in campo la Cina. Il vantaggio di produrre nei posti più disparati del mondo, dove la manodopera costava talmente poco da permettere margini migliori nonostante le spese di trasporto. Pietra miliare del declino è stato il superamento dell’accordo multifibre nel 2004, un accordo che limitava la vendita mondiale dei tessuti, esportazione e importazione. Tolto questo limite, i mercati emergenti imposero i propri prodotti a prezzi stracciati. Fu l’inizio della fuga per i grandi marchi. A Martina Franca hanno tentato di reagire e ricostruire. Una manciata di anni, prima che la grande crisi del 2008 desse il colpo di grazie al distretto”.

Persino la possibilità di bollinare un prodotto come made in Italy non è stato più un problema dopo la legge a maglie larghe del 2010, che prevede che il capo può essere definito tale se almeno due fasi della lavorazione si svolgono in Italia. “Prendiamo a esempio una camicia. Il furbetto faceva fare quasi tutto in Cina o in Romania, poi la riportava in Italia dove faceva solo apertura asole, applicazione bottoni e stiratura. Tanto bastava perché potesse essere made in Italy. Una legge che favorisce la griffe, non l’imprenditore tessile. E tanto ormai ai grandi marchi non importa neanche troppo, vista la loro fama e riconoscibilità”.

Ormai sul territorio è talmente difficile non restare strozzati e fare impresa che la soluzione è diventata quella di produrre in un altro posto del mondo e qui trasformarsi in esercizio commerciale. Con tanti saluti alla creazione di occupazione, alla continuità, alla tradizione, laddove il tessile affondava le sue radici nel territorio.

E siamo all’iniziativa di domani, un’apertura di dialogo a imprese e istituzioni per trovare una via d’uscita a una crisi che, come detto, viene da lontano e a un’altra che con il covid rischia di essere devastante. “Peccato che anche qui Confindustria, in linea con il nuovo presidente, si mostra disponibile all’interlocuzione ma poi va dal prefetto e dichiara che l’unica condizione per superare l’impasse del tessile è l’abbassamento del costo del lavoro”.

Appuntamento il 24 luglio alle 18:30 a Martina Franca, Villaggio Sant’Agostino. Sul tavolo di discussione moda e turismo. “Perché l’altra grande opportunità per ripartire è il settore dei servizi – ci spiega Paola Fresi, segretaria generale della Filcams Cgil provinciale – in particolare i servizi legati a cultura e turismo. I lavoratori di questo settore sono stati piegati dal covid e costretti all’ultimo gradino dell’attenzione delle istituzioni. Lasciati senza bonus e ammortizzatori sociali. Guide, bagnini, persino gestori di poli museali a cui è stata tolta la dignità di un lungo percorso di formazione e consegnato un contratto da uomo di fatica”.