Il futuro del lavoro non si gioca solamente sull'innovazione e sulle nuove tecnologie, ma dipende con altrettanta forza sul cosa produrre, con quali risorse e con quali conseguenze per la salute e per l'ambiente. Lavoro dignitoso e sostenibilità implicano una visione globale del sistema economico, delle sue finalità, dell'impatto che produce nella società e nell'ambiente. Forse è il caso di ricordare che la comunità internazionale, uscita dai disastri delle due grandi guerre del novecento, dando vita alle Nazioni Unite, indicò nella definizione di "benessere, sicurezza e sviluppo" i grandi obiettivi di lungo periodo della comunità internazionale civile e delle sue politiche, chiamate quindi ad orientare e governare l'economia globale.

Nella realtà ben sappiamo che il sistema economico dominante e le relazioni tra Stati hanno prodotto benessere sì, ma con una tale concentrazione di ricchezza in mano a poche persone e gruppi da provocare profonde diseguaglianze e povertà endemica in interi continenti. Un sistema economico che sta distruggendo l'equilibrio climatico e la stessa sopravvivenza del pianeta e dei suoi abitanti, una stabilità politica e sociale mantenuta con la deterrenza delle armi di distruzione di massa e con una spesa militare in continua crescita.

Nei momenti di crisi e di impazzimento del sistema, sempre più frequenti per acutizzarsi dei problemi strutturali ed irrisolti, i diritti e la salute delle lavoratrici e dei lavoratori sono i primi ad essere tagliati e calpestati, messi sotto il ricatto del "non esistono alternative, prendere o lasciare". Basta citare i casi più noti dell'ultimo periodo, quali l'Ilva di Taranto o la questione della fabbrica Rwm di Domusnovas nel Sulcis, per comprendere come, l'assenza di una politica economica ed industriale attenta, lungimirante e responsabile, possa determinare drammi e disastri sulla vita delle persone e sull'ambiente.

La sostenibilità dell'economia è un punto centrale, fondante del futuro del lavoro, dove per sostenibilità si intende il rispetto ed un utilizzo duraturo delle risorse naturali, la sostituzione delle fonti energetiche inquinanti e non rinnovabili con fonti di energia pulite e rinnovabili. Con la riconversione dell'economia di guerra all'economia di pace. Con il lavoro inteso come un bene comune universale e non come una merce, quindi protetto e tutelato come parte integrante dei diritti umani fondamentali.

Il pensiero e l'azione sindacale deve quindi essere in grado di affrontare il tema del futuro del lavoro avendo ben presente queste tre dimensioni della sostenibilità: l'ambiente, l'economia di pace, i diritti fondamentali del lavoro, e la loro interdipendenza, universalità ed inderogabilità. L'economia di pace è forse la dimensione che per implicazioni di geo-politica e di "sicurezza nazionale", dalla fine del secolo scorso, è diventato un tema riservato all'analisi di geo-politica e non più oggetto di riflessioni, confronti e proposte, nell'ambito dell'economia e del dibattito sindacale.

Basterebbe aprire i nostri archivi e rileggere quanto è stato scritto e oggetto di dibattiti e di mobilitazioni negli anni 80 e 90 del secolo scorso, sul tema della riconversione dell'industria militare che portarono all'approvazione della legge 185/90 sul commercio delle armi, alla creazione dell'Agenzia per la riconversione dell'industria bellica in Lombardia nel 1994, su iniziativa del comitato cassaintegrati Aermacchi per la pace ed il diritto al lavoro, alla nascita dell'Osservatorio sull'industria bellica in Toscana, promossa dall'Ires Cgil che ha prodotto studi, analisi e ricerche dal 1992 fino al 2002, alle lotte ed alla riconversione della fabbrica di mine in Valsella, alle esperienze nel distretto di La Spezia, in Toscana ed in Abruzzo, ai i contatti e le esperienze in ambito europeo, grazie al programma Konver (Iniziativa comunitaria relativa alla conversione della difesa, 1994-2001). Unimpegno ed un'attenzione che ha coinvolto l'insieme della nostra società e che ha visto una partecipazione ed un forte attivismo della nostra organizzazione ma che progressivamente, sono stati assorbiti da altre attenzioni e da altre proprietà.

Di fatto, oggi, non esiste alcun programma europeo di riconversione, la spesa militare e per la difesa è in continua crescita. Sul versante legislativo, a trent’anni dalla sua approvazione, la normativa di riferimento è la Legge n° 185 del 1990 che regolamenta e limita la vendita di armi. Una legge che è stata possibile a seguito di una campagna di impegno civile, di mobilitazione e di un ampio schieramento parlamentare a favore, oggi non più presente. La 185/1990 oltre a regolamentare la vendita di armi, ha un paio di passaggi che rinviano alla questione della riconversione: Nelle Disposizioni Generali, all'Art.1. Comma 3: “Il governo predispone misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione ai fini civili delle industrie nel settore della difesa”; nel comma 2, dell'articolo 8, relativo all'istituzione di un Ufficio di coordinamento della produzione di materiali di armamento, che attribuisce le seguenti funzioni: “L'Ufficio contribuisce anche allo studio ed alla individuazione di ipotesi di conversione delle imprese, in particolare identifica le possibilità di utilizzare per usi non militari di materiali derivati da quelli di cui all'articolo 2, ai fini di tutela dell'ambiente, protezione civile, sanità, agricoltura, scientifici e di ricerca, energetici, nonché di altre applicazioni nel campo civile”.

Purtroppo, non risultano essere stati realizzati studi o altre attività orientate alla riconversione da parte di detto ufficio. Inoltre, a tutt'oggi, non esiste in Italia un'agenzia nazionale per la riconversione. Un vuoto che è stato affrontato da una proposta di legge, depositata alla Camera dei deputati nel 2006, su iniziativa di una ventina di parlamentari, che per l'appunto, prevedeva la costituzione di un'agenzia nazionale per la riconversione dell'industria bellica, il finanziamento dei progetti in parte a carico delle stesse imprese (1% del fatturato), in parte con il contributo volontario dei cittadini attraverso l'8/1000, in parte a carico dello stato con la minor spesa per la difesa. La proposta è rimasta nei cassetti del parlamento, come quella del 1986, promossa dal partito radicale.

Da oltre un ventennio, ed in particolare dal 2008 ad oggi, i governi hanno tagliato di tutto, dalla sanità, all’educazione, alle tutele contrattuali, ai sistemi di welfare - portando milioni di persone (come certificano le agenzie internazionali e la nostra Istat) in condizione di povertà estrema - la spesa pubblica militare, mondiale invece è aumentata di anno in anno, sfiorando nel 2019 il tetto dei 2.000 miliardi di dollari Usa, mentre in Italia, si sono spesi 25 miliardi di $usa, rappresentando un aumento superiore al 20% su base decennale, e per i soli armamenti del 85%.

Merita una particolare attenzione la spesa in armamenti. Ricordiamo, uno per tutti, l'impegno assunto dallo Stato italiano per l’acquisto dei caccia-bombardieri F35, sistemi d'arma d'attacco e predisposti per il trasporto di testate nucleari, che pongono interrogativi e contraddizioni di ordine politico rispetto alla nostra Costituzione, di ordine economico e di priorità nell'interesse generale del paese, per il loro costo elevato ed in continuo aumento. Oltre al fatto che questi nuovi caccia-bombardieri non risultano essere affidabili a detta dagli stessi soci di maggioranza, gli americani, del consorzio produttore, tolgono risorse che potrebbero invece essere destinate per la messa in sicurezza del territorio, delle scuole, per investimenti e ricerca, innovazione e nuovi posti di lavoro sostenibili (con diritti, puliti, di economia disarmata).

Tutti segnali al riarmo che trovano conferme nelle scelte strategiche del gruppo Leonardo-Finmeccanica, tra i primi dieci produttori mondiali di armi, che concentra le proprie risorse ed investimenti in progetti di ricerca ed innovazione nel settore militare piuttosto che in quello civile. Come pure nella nuova mission del Ministero della Difesa che da una decina di anni ha avviato una campagna di promozione commerciale del nostro apparato militare alla ricerca di nuovi mercati e nuovi acquirenti, con particolare attenzione alla regione del Medio Oriente.

Il giro d'affari dell'industria militare nel nostro paese oggi supera i 15 miliardi di euro, di cui l'80% del fatturato proviene dal Gruppo Leonardo-Finmeccaninca. Gli addetti si aggirano oltre i 50mila, più un indotto di pari numero. Siamo al settimo posto nel mondo tra i produttori di sistemi di arma complessi (periodo 2004-2008). Il comparto militare quindi tira, nuove guerre e nuovi pericoli richiedono sempre maggiori e più sofisticati sistemi di sicurezza ed armamenti, l'economia di guerra si afferma ed in assenza di investimenti e politiche industriali alternative anche il lavoro ne diventa vittima.

Il dibattito sull'economia di pace è un tema di carattere globale che non può prescindere da un confronto ed una riflessione che il sindacalismo internazionale deve affrontare coinvolgendo le rappresentanze sindacali di ogni livello, a partire dal livello locale e di categoria, coinvolgendo delegati e lavoratori e lavoratrici per uscire dai facili ricatti “salute o lavoro”, “inquinare o povertà”, “le armi se non le produciamo, trasportiamo, carichiamo noi lo faranno altri...” che ci fanno scivolare nell’abisso delle miserie umane, dove i diritti, le libertà, la giustizia sociale, la solidarietà, saranno sempre più merce rara, fuori mercato, in via di esaurimento, sold out. L’alternativa all’industria bellica al servizio delle guerre è possibile ed oggi è indispensabile per uscire dalla crisi di sistema, costruendo un nuovo modello di convivenza globale, fondata sull’ideale di universalità dei diritti e di pace, dove economia, commercio, finanza, produzione, mercato sono strumenti a disposizione per il raggiungimento di questi ideali.

Sergio Bassoli, Aree politiche Cgil e coordinatore Rete della Pace