"La vita del militante sindacale è una vita di sacrifici, ma quando la causa è così alta merita di essere servita". Storie di ordinario sfruttamento fanno da sfondo alla pandemia. Baracche, casolari, vecchi ruderi rattoppati alla meglio, con plastica a coprire i buchi nelle lastre di Eternit che fanno da tetto. Senza acqua se non quella garantita da vecchi pozzi. I bagni, fosse scavate ai margini dei campi e qualche straccio appeso attorno a fare da paravento. Il coronavirus ripropone questa emergenza con ancora maggiore ferocia, ma con un volto nuovo. Da quando per spostarsi era necessario un lavoro regolare, la maggior parte dei braccianti migranti è rimasta intrappolata nei ghetti. E mentre i prodotti marcivano nei campi, fra le grida di allarme degli agricoltori e delle associazioni di categoria, i braccianti hanno iniziato a combattere non solo con la paura del contagio, ma anche con la fame.

C’è un'estrema somiglianza tra la condizione dei braccianti di oggi e quella dei contadini dell’Italia di Giuseppe Di Vittorio, sfruttati senza regole e trattati come bestie, con violenza. I braccianti, allora, non erano ritenuti in grado di intendere la politica, visti come ignoranti, analfabeti, capaci di provocare danni con assalti ai municipi e scioperi intempestivi. Di Vittorio non condivide questa posizione e, anzi, rappresenta l’esempio più sorprendente di emancipazione di un contadino giovane, che si affaccia alla politica e, da subalterno, diventa dirigente. La storia si muove con percorsi singolari a volte, in cui il contesto, una terra, dei luoghi, possono diventare patrimonio di lotte. È infatti significativo che proprio dalla Puglia, terra di Di Vittorio, sia venuta la scintilla per una legge contro il caporalato e per la regolarizzazione “non delle braccia, ma dell’umanità”.

La vita dei braccianti e delle loro famiglie, quando Di Vittorio, a sette anni e mezzo, è costretto a lasciare la scuola per diventare anch’egli bracciante, era semplicemente penosa. Il bracciante non aveva alcuna sicurezza dell’immediato domani: a sera si presentava nella piazza del paese per attendere che un padrone, o un suo incaricato, giungesse per assumerlo. Quando si aveva la fortuna di venire “assunti”, il lavoro non durava più di qualche giorno - spesso un giorno solo - e il prezzo lo faceva il padrone. Di solito la manodopera disoccupata era sovrabbondante e, persino nel maggio, quando i lavori nel vigneto si facevano pressanti, o in giugno, alla mietitura, il padrone riusciva ad imporre il suo prezzo. Anche in quei mesi di lavoro agricolo intenso, infatti, il padronato chiamava a Cerignola frotte di braccianti “forestieri”, per impedire che i salari migliorassero.

“Figli del bisogno e della lotta” ha scritto Giorgio Amendola: del bisogno, cioè della fame nera, sofferta da milioni di braccianti e contadini nelle campagne italiane, tra Ottocento e Novecento; della lotta, cioè della volontà di riscatto sociale che muove le coscienze di tanti sfruttati, spinti dalla speranza di migliorare le condizioni di vita e di affermare la propria dignità di esseri umani. Di Vittorio non dimenticherà mai di essere stato un bracciante. Si può dimenticare di aver svolto una qualsiasi attività nella propria vita, ma non si potrebbe dimenticare mai di avere vissuto da bracciante nella Puglia di inizio secolo. Ed è proprio dalla condizione di bracciante analfabeta che nasce in lui una convinzione che non lo abbandonerà mai: l’ignoranza degli strati sociali deboli della popolazione è l’arma più potente nelle mani del potere, per mantenere privilegi e perpetuare abusi e ingiustizie.

Di Vittorio ha rappresentato per i braccianti della sua Puglia e dell’Italia intera un simbolo di libertà e di educazione civile, ma soprattutto è stato uno di loro: nato in uno dei tuguri da loro abitati, ha sofferto, come loro, la fame e l’ingiustizia, e poi li ha educati, organizzati, diretti nella lotta per migliorare le proprie condizioni di vita. Oggi Di Vittorio sarebbe uno dei tanti braccianti irregolari di quell’enorme “esercito di riserva”, vittime di soprusi, di cui il padronato continua a sfruttare le braccia, dimenticandone l’umanità. Ma al tempo stesso sarebbe uno dei tanti sindacalisti che ogni giorno continuano a lottare per liberare il lavoro dalla schiavitù e restituire diritti e dignità. La Cgil ha rappresentato, infatti, e rappresenta ancora l’unico soggetto di emancipazione e liberazione per i dannati della terra di ieri e di oggi. “La vita del militante sindacale è una vita di sacrifici, ma quando la causa è così alta, merita di essere servita”.