Direste mai di una pianta malata che a rischio sono “solo” le radici. Evidentemente no, perché senza di loro non c’è vita. Eppure questo è stato detto fin dall’inizio della pandemia: voleva essere tranquillizzante, “rischiano di morire solo o soprattutto gli anziani”, le radici della nostra società. Come se gli anziani – o i più deboli – valessero di meno, fossero qualcosa di residuale di cui si può tranquillamente privare, magari perché non più produttivi, persino perché costosi. E la loro perdita da consegnare ai lutti privati, non degni di considerazione sociale. Ora che la pandemia è uscita dall’emergenza per entrare nella normalità, è bene ricordarsela quell’ingiuria reiterata nelle prime settimane del Covid-19. Per non ripeterla, per chiedere scusa, per ricordare quella parte delle nostre radici che ci ha lasciato. Come fanno qui, a loro modo, Tosca e Ascanio Celestini.

In questi mesi, la pandemia che ha ucciso migliaia di persone anziane, pur non essendo il  virus dotato di capacità intellettive, che punta alla selezione della specie attraverso l’annientamento di un’intera generazione. Le persone anziane sono le più colpite dalla malattia perché più fragili, dunque maggiormente esposte a un contagio che ci ha poi dimostrato di non chiedere a nessuno la carta d’identità. “Non è un paese per vecchi” – direbbero i fratelli Coen - quello in cui i nostri anziani muoiono soli, in una residenza sanitaria assistenziale. Non lo è neanche quello in cui si valuta la gravità di un virus sulla base della fascia di età che ne è più colpita. Come se essere vecchi non significasse anche essere più saggi, ma solo da buttare.

Perdere una generazione vuol dire perdere un contatto diretto e tangibile con la propria storia, quella personale e quella collettiva. Vuol dire tagliare quel filo che unisce il proprio presente a un passato abbastanza lontano da non averlo vissuto, ma ancora così vicino da poterlo ascoltare. Ogni individuo è il frutto del sistema di relazioni complesse che sviluppa nel corso della sua esistenza. Quelle esterne, che lo aiutano a stare al mondo, non basterebbero da sole, senza l’ossatura solida costituita dalle storie di ieri. Gli uomini e le donne che oggi sono anziani, da giovani hanno costruito la società protetta in cui altri sono diventati adulti. Sono stati un sostegno essenziale ai nostri progetti di futuro, mentre a loro in passato è mancata spesso qualunque forma di aiuto. Hanno costruito il mondo in cui viviamo, per poi essere accusati di avercelo rubato.

Ma se il patto tra generazioni si rompe, crolla un sistema sociale basato sulla solidarietà. I vecchi sono nonni, genitori, amici, parenti. Sono i ricordi di cui si ha bisogno, dopo una crisi, per ricominciare. Per ricostruire un Paese con la stessa forza con cui quella generazione lo seppe rimettere in piedi dopo una guerra disastrosa. Un nuovo patto generazionale può essere l’inizio della ricostruzione, a partire dall’idea che i più fragili devono essere protetti. Fa bene rileggere Neruda, per il quale giovinezza e vecchiaia non potevano essere presi come dati puramente anagrafici: “Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare”.