L’epidemia di Coronavirus, oltre che su salute, economia e lavoro, produrrà molti altri effetti negativi, uno di questi è la demografia. È stato pubblicato, pochi giorni fa, il Rapporto Istat sui dati relativi alla mortalità nel 1° trimestre 2020; nel trimestre gli effetti drammatici dell’epidemia, riguardano poco più di un mese ma sono già ampiamente significativi per avanzare alcune riflessioni e domande anche per chi, come me, non è esperto dei temi demografici.

Questo studio, può essere intrecciato con altri recenti report, sempre dell’Istituto di statistica, su natalità, aspetti di vita degli over 75, protezione sociale in Italia e in Europa, e sulle condizioni di vita dei pensionati; inoltre, con una ricerca della FDV sul positivo contributo degli immigrati a demografia, occupazione e welfare. Il totale dei residenti in Italia continua a diminuire, al 31 dicembre 2018 vi erano 60 milioni 360 mila residenti, 124 mila in meno rispetto all’anno precedente e circa 435 mila rispetto al 2014, nonostante il numero  di nuove residenze straniere sia ancora positivo (+110 mila al 31/12/2018 rispetto all’anno precedente) non compensa più nemmeno il numero degli italiani che spostano la propria residenza all’estero (+120 mila nel 2018).Peraltro, i dati della ricerca Fdv ci dicono che il contributo dei migranti al Pil è da sempre positivo, così come, a livello fiscale e contributivo, il saldo tra entrate ed uscite. La crisi demografica italiana era già dunque legata ad un saldo naturale negativo, ad un crescente numero di italiani che emigrano e al calo dell’immigrazione.

Relativamente agli effetti dell’epidemia, l’Istat ci informa che nel solo mese di marzo 2020, a livello nazionale, si è verificato un aumento fortissimo dei decessi (dato che vede differenze enormi fra zone più o meno colpite dall’epidemia). L’effetto virus è evidente. Se nei primi due mesi dell’anno il numero dei decessi era addirittura in miglioramento rispetto al 2019 (-6,6% il dato medio nazionale dei primi due mesi rispetto alla media gennaio-febbraio 2015/2019), da fine febbraio e poi a marzo la situazione si capovolge. Fra il 20 febbraio e il 31 marzo i decessi totali salgono a 90. 946 contro 65.582 dello stesso periodo negli anni precedenti, ben 25.364 in più in questi 40 giorni.

Tutto attribuibile al virus? Sicuramente per oltre il 50% dei decessi la conferma viene dalle diagnosi ma, come riferisce sempre l’Istat, negli altri casi è possibile ipotizzare cause legate anche alla mancanza di tamponi, o indirette, come la crisi del sistema ospedaliero e il timore di recarsi in ospedale. Questi numeri purtroppo, nell’attesa di quelli di aprile e seguenti, portano ad una prima previsione sugli effetti demografici nel corso dell’intero 2020.

Lo scorso anno, il numero di decessi è stato (stime preliminari) di 647 mila unità. Per il 2020, le previsioni pre-pandemia indicavano un piccolo incremento su base annuale. Purtroppo non sarà così e le previsioni sono di un aumento della mortalità che va da un minimo di +38 mila unità ad un massimo collocato fra 80/90 mila unità, forbice legata all’intensità del rischio pandemia e alla sua durata. Dati drammatici, che avranno un influsso pesantissimo sul numero dei cittadini, ma anche su un assunto da tutti, dato per scontato da molti anni. La crescita dell’aspettativa di vita.

Da una speranza di vita di 82,98 anni alla nascita e di 20,89 dal 65° anno di età, le stime parlano di un calo da 6 mesi a 1 anno, a seconda degli scenari che si prefigureranno. Ovviamente, per esaminare gli scenari demografici, l’altro dato di fondo è quello della natalità. Anche in questo caso esistono simulazioni all’epoca del coronavirus. Nel 2019, Istat prevede circa 435 mila  nascite su base annua. Prosegue dunque una ormai storica caduta di natalità, ma che ha avuto un picco particolarmente negativo (e questo è un punto importante) con la crisi del 2008 e anni seguenti.

Dai 577 mila nati nel 2008 a 435 mila nel 2019 (-142 mila). Perché ragionare anche a proposito della natalità, dell’effetto virus oggi e della crisi del 2008? Perché l’aggravamento di scenari sanitari, economici, di occupazione e quindi di fiducia nel futuro, hanno sempre giocato un ruolo fondamentale nelle scelte delle persone. Senza questi ulteriori effetti distorsivi che la pandemia propone, le stime di nascita per il 2020 parlavano di uno scenario sostanzialmente invariato o solo leggermente negativo.

Ora cosa succederà? Sono molti i fattori che possono interagire, oltre a quelli sociali, di parità e conciliazione, già esistenti. Si possono ricomprendere in questa fase in due grandi raggruppamenti: l’aumento del clima di incertezza e paura; le crescenti difficoltà economiche e lavorative. Numerosi esempi nel tempo sono sfavorevoli e per ultimo, il parallelo con il 2008 conferma che ad un calo di fiducia nel futuro e ad un calo dell’occupazione corrisponde un regresso delle nascite; la linea di allarme è quella del confine simbolico ma importante dei 400 mila nuovi nati annui. A tutto questo si potrebbero aggiungere altri elementi che ad esempio motivano una mortalità così alta fra gli over 75 (il 48% circa soffre di tre o più patologie croniche), ma anche il contributo prezioso che i pensionati sempre, ma soprattutto in una fase economica così difficile, danno alle famiglie e quindi a tutti: le famiglie con pensionati hanno un rischio di povertà di circa 8 punti percentuali inferiori alle altre.

Alcune considerazioni conclusive allora, sulla base di quanto finora elencato. Che futuro ha un paese in cui contemporaneamente cala la popolazione, aumenta la disoccupazione e diminuisce la base produttiva? È evidente che bisogna ribaltare tutte queste tendenze. L'economia e l’occupazione ovviamente sono al centro del dibattito, molto meno i temi delle politiche di parità e di conciliazione, così come il ruolo della formazione. Si ricomincia invece a discutere e speriamo ad agire sulle politiche migratorie. Ma al dunque riemerge in modo centrale, il ruolo del welfare e della protezione sociale, con la salute in primo piano. Come aspetto fondamentale di speranza nel futuro e come vero e proprio motore di un nuovo sviluppo che può partire dal pubblico. Solo alcuni dati a sostegno di questa tesi: nel 2019 per tutte le spese pubbliche per prestazioni sociali e sanitarie, in Italia sono stati spesi 479 miliardi, il 59% della spesa pubblica (Istat). Questa spesa, ha subito un rallentamento importante tra il 2009 e il 2019 rispetto al decennio precedente. Per far fronte alla crisi e alle difficoltà di finanza pubblica, come è noto, si è quasi sempre scelto la via dei tagli. La sanità è tornata ai livelli percentuali degli anni ’90, e all’interno della sanità pubblica è calata soprattutto l’assistenza ospedaliera. 

In questo momento tutti parlano di ruolo insostituibile del pubblico, di investire in sanità e assistenza, ma durante le precedenti crisi è andata in modo diverso, capiremo la lezione o sarà ancora così passata l’emergenza? È un banco di prova fondamentale  perché influisce su tutti i fattori necessari per la ripresa: investimenti, tecnologie, occupazione, povertà, fiducia e conseguentemente, anche per una nuova fase positiva della demografia italiana.

Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio