Pubbliche virtù che nascondono vizi privati. Succede sempre più spesso in tempo di Covid che gruppi multimiliardari celino la propria spietatezza dietro al velo della responsabilità sociale. Quella ingannevole, come la pubblicità che ne deriva, rilanciata dalle brevi dei giornali. E finisce che donazioni milionarie, destinate a chi lotta in prima linea contro il virus, diventino la faccia pulita e appetibile dietro cui ricattare i lavoratori. Gli unici a pagare. Così apprendiamo che la dirigenza del gruppo Coca-Cola HBC Italia, nel bel mezzo di questa lunga quarantena, ha donato alla Croce Rossa un milione e 300 mila euro (spiccioli) e, nello stesso tempo, ha imposto ai propri dipendenti, in cassa integrazione Covid 19, di rinunciare persino alla maturazione dei ratei di tutti gli istituti contrattuali, senza per altro integrare l’importo dell’ammortizzatore sociale così da arrivare a stipendio pieno. Paventando, neanche tanto velatamente, un sostanzioso ridimensionamento della forza lavoro a seguito dell’emergenza sanitaria, con chiusure di stabilimenti e riduzione del personale, come già avvenuto più volte negli ultimi anni.

La Flai Cgil si è schierata subito a difesa dei diritti dei lavoratori. Il sindacato dell’agroindustria, si legge in una nota dei suoi rappresentanti, chiede di premiare, anziché mortificarli, il grande impegno e il senso di responsabilità con il quale gli addetti continuano ad assicurare profitto. Sono loro che ogni giorno, nonostante tutto, rendono possibile al celebre marchio di entrare nelle case di tutti gli italiani, anche a costo di mettere in pericolo la propria salute. Non dev’esser facile, in tempi di paura, mascherine e pandemia, andare al lavoro tutte le mattine per imbottigliare e distribuire Coca-Cola.

Andiamo per ordine. Sarà che, in quel lontano 29 maggio 1884, il suo inventore, il farmacista americano di origini polacche, John Stith Pemberton, la reclamizzò, su un giornale locale di Atlanta, come medicinale in grado di curare le emicranie e alleviare l'affaticamento. Sarà per quel marchio glamour e quel nome pop – la seconda parola più pronunciata al mondo dopo ‘ok’ – che incarnano tutto il meglio e il peggio del capitalismo, dai jingle di successo alla onnipresente sponsorizzazione nei grandi eventi, dal boom degli anni 50, all’indissolubile connubio con la pizza. Fino al sogno americano. Sarà che alla potenza politica e finanziaria di questa multinazionale, ovunque – figuriamoci alle nostre latitudini – nessuno riesce a dire no. Fatto sta che l’intramontabile lattina rossa si è fatta largo tra le produzioni essenziali, e, rotolando tra le macerie di questa devastante pandemia, ha trovato spazio tra respiratori, pastasciutta e mascherine. Via libera, cancelli aperti, si continua a produrre a ranghi ridotti. Per tutti gli altri la striminzita cassa integrazione senza ratei. 

E tante grazie alle maestranze coraggiose che devono sorbirsi anche le lacrime di coccodrillo di un’azienda preoccupata per la liquidità messa a dura prova dalla crisi. Come se qualche settimana di chiusura simultanea globale per bar, pub, ristoranti, pizzerie e affini, o la difficoltà a insinuarsi nella nostra lista della spesa settimanale d’emergenza, di certo, quando si tratta di alleggerire le buste da trascinare fino a casa, molto più rigida degli sbrindellati codici Ateco, possano aver scalfito il bilancio stratosferico della bibita e forse del marchio più venduti al mondo. Stando ai dati del 2015, 1,8 miliardi di pezzi al giorno.

Eppure, anche stavolta, sono sempre i soliti a pagare. Con tanti saluti a Babbo Natale che dal merchandising vintage fa l’occhiolino mentre posa accanto alla sinuosa bottiglietta contornata dall’elegante scritta in stampatello. Bontà e stile restano confinati nei poster pubblicitari. La dolcezza si appiccica al fondo del bicchiere. Fuori comandano solo i soldi. È il business, bellezza. “Così – denuncia la segretaria nazionale del sindacato degli alimentaristi della Cgil, Sara Palazzoli – in un contesto in cui tutte le altre multinazionali del settore, d’accordo con le organizzazioni di rappresentanza, hanno messo in campo soluzioni per tutelare e premiare i lavoratori e il loro coraggio, la Coca-Cola, la regina delle bevande gassate, vincitrice, per il quinto anno consecutivo, dell’ambito Top Employers Italia, un premio per le condizioni messe in atto nel campo delle risorse umane, non solo decide di non concedere nulla ai propri dipendenti, ma paventa ulteriori tagli al personale”.

Chi la dura la vince, ci viene da pensare. “Ognuno sceglie in che campo giocare la sua partita”, hanno scritto i delegati della Cgil, “e la Flai ha deciso più di cento anni fa da che parte stare: dalla parte dei lavoratori, sempre”. Ma in questo scontro di civiltà, tra il rosso fuoco del capitalismo che fa terra bruciata e il rosso acceso del sindacato che scalda il cuore, mentre tifiamo il coraggioso Davide contro Golia, ci chiediamo se dalle ceneri di questo disastro sanitario possa rinascere un mondo che abbia finalmente un senso. Nel quale a nessun lavoratore sia addebitato, per intero, il costo delle crisi, né gli sia chiesto di rischiare la propria vita per imbottigliare e distribuire Coca-Cola.