La pandemia non può far calare un velo sulle criticità e le contraddizioni del mondo del lavoro, nella maggior parte dei casi, anzi, le amplifica, anche per coloro che hanno continuato a lavorare, tra attività essenziali e deroghe, nella regione più colpita dal Covid-19, la Lombardia. Le basi di questa diffusa opinione sono le storie dei lavoratori, come quella di un autotrasportatore della provincia di Milano, che ha 57 anni e conduce i camion che in Brianza portano i rifornimenti alimentari dai depositi ai supermercati. A lui, benché non abbia chiesto l’anonimato, diamo un nome fittizio, Mario, perché l’esperienza che sta vivendo la condivide con molti altri lavoratori ed è quindi emblematica. Dall’inizio della pandemia Mario ha smesso di lavorare per due settimane, ma solamente perché ha deciso l’autoisolamento per un’immunodeficienza dovuta a una patologia importante. Poi il ritorno al lavoro, perché senza soldi non si vive, e Mario viene pagato a ore, e anche perché l’azienda ha bisogno del personale per effettuare i trasporti e quindi le consegne per uno dei pochi settori che hanno continuato a rimanere in piena attività nonostante le misure governative per fermare il virus. 

“Quando sono tornato a lavorare mi hanno messo a fare il secondo turno, quello notturno – ci racconta -, viaggiando di notte ho meno contatti, mentre prima lavoravo la mattina presto, mi alzavo magari alle 4 del mattino. Lavoro sempre tutti i sabati e le domeniche con un giorno di riposo durante la settimana. Mi hanno messo a disposizione mascherine e guanti e hanno sanificato la cabina del camion, poi mi hanno dato uno spray disinfettante perché la mattina il camion lo usa il mio collega. In alcuni casi so che danno mascherine usa e getta che poi i colleghi sono costretti a riciclare perché vengono forniti ogni due settimane”. Gli autotrasportatori non sono sottoposti ad alcun controllo sanitario specificoper la circostanza e Mario ha timori per la sua salute, viste anche le malattie pregresse, usa tutte le precauzioni necessarie, ma deve continuare a lavorare. Quando parte con il camion, dopo essersi recato al lavoro con la moto, aggancia il rimorchio già carico e quando arriva al punto vendita lo attacca alla ribalta, perché ora è vietato entrare nel punto vendita dei supermercati, ma qualche contatto con chi carica e scarica ci può essere.  

Il suo salario ora è quasi dimezzato: “Il mio principale – dice - ha 30 camion e lavora in appalto per una grande catena di distribuzione, che, forse unica nel suo genere, paga le consegne ogni quindici giorni. Dopo la quarantena non mi fa fare nemmeno le otto ore”, ed è chiaro che sia una sorta di punizione per non essere andato al lavoro per due settimane, infatti se il problema fosse la sua sicurezza allora non si capisce perché non gli impongano lo stop anziché farlo lavorare per cinque o sei ore. La sua azienda non è ricorsa alla cassa integrazione e nemmeno ai licenziamenti, perché il lavoro c’è ed è tanto, ma altri suoi colleghi, che trasportano materiali diversi da quelli destinati al settore alimentare e farmaceutico, sono stati lasciati a casa

Mario definisce il suo contratto “stranissimo”: “Tutti i mesi la busta paga non è uguale, facevo gli straordinari e non me li sono mai trovati pagati e così ogni mese mi mancano due o tre cento euro. Ho chiesto spiegazioni, e mi è stato risposto che va bene così”. Lui non è il solo ad avere un trattamento di questo genere e allora perché insieme ai colleghi non rivendica i propri diritti? “Qui sono tutti somari – afferma -. Questa azienda paga puntualmente, a differenza di molte altre che hanno ritardi di uno o due mesi, e quindi nessuno dice niente perché sanno che i soldi entrano, sicuri. Io ho proposto di fare sindacato e così non mi hanno nemmeno più guardato in faccia, mi hanno isolato, e il motivo sta anche nel fatto che l’azienda ti intimorisce con il taglio delle ore, è un ricatto. Sono tanti anni che faccio l’autotrasportatore e questo settore è sempre stato losco, le aziende si arricchiscono alle nostre spalle”. 

Mario racconta che gli autotrasportatori lavorano anche 16, 17, 18 ore e che quando lui ha ricordato ai suoi datori di lavoro che questo è contro le regole, che la patente di camionista è sua e ha l’obbligo di rispettare il codice della strada, è stato additato “come una pecora nera”. “Da una parte c’è il comportamento delle aziende, dall’altro non c’è unità tra i lavoratori che continuano a subire. Si lavora oltre l’orario consentito e a volte si finisce alle dieci di sera e si ricomincia alle quattro del mattino, senza che trascorra il numero di ore di riposo previsto per legge”. Ricorda poi quando fece una vertenza per il mancato pagamento degli straordinari, la vinse, ma poi l’azienda per la quale lavorava lo mise in condizioni di andarsene.

Alla fine della nostra chiacchierata Mario sembra quasi lanciare un appello e chiede che i lavoratori dell’autotrasporto siano più tutelati