Dicono che negli ultimi istanti di vita le persone affette da coronavirus sembra che affoghino. Letteralmente. Se ne vanno così, cercando in ogni modo, senza riuscirci, di incamerare aria nei polmoni. Lo sguardo paralizzato dalla sofferenza e dalla consapevolezza della morte. Un’immagine terribile, un ultimo fotogramma che sembra aver intrappolato la città di Bergamo e i paesi della provincia. Un territorio con il respiro sempre più corto. Prigioniero di una bolla nella quale non valgono niente neanche i numeri della protezione civile, troppo lenti per star dietro alle vittime di queste valli. Tanti, troppi morti. Così tanti morti che c’è voluto l’esercito per portare via le bare. A darci le dimensioni della tragedia che ha gettato un’intera comunità nel lutto e nel terrore è Roberto Rossi, segretario generale della Funzione Pubblica Cgil della provincia. E solo chi la sta vivendo in prima persona può veramente raccontare le cose come stanno. Perché c’è un intero Paese con il fiato sospeso, c’è la Lombardia che stringe i denti e poi c’è Bergamo, dove ci si chiede ogni minuto per chi stia suonando la campana.

I morti registrati sono cinque volte di più rispetto ai decessi per Covid-19 censiti ufficialmente. Nei dati comunicati ogni giorno alle sei del pomeriggio, rientrano solo coloro cui è stato fatto un tampone che ha dato esito positivo. Ma qui ormai tantissimi muoiono in casa. Decessi che verranno alla luce solo con il saldo demografico di fine anno. Sono persone alle quali non è stato fatto alcun esame diagnostico, dove il medico di famiglia ha potuto solo constatare alcuni sintomi riconducibili al coronavirus, senza poterlo accertare come vorrebbe la procedura. Per avere la certezza della malattia, la famiglia dovrebbe chiamare i soccorsi, mandare il proprio caro a morire da solo in un letto di ospedale, senza la possibilità di avere un conforto, di vivere gli ultimi istanti circondato dai propri affetti. Anche e soprattutto per questo, ormai, si muore in casa, fuori dalle statistiche ufficiali. Perché molte famiglie, per evitare tutto questo, non chiamano i soccorsi. Soprattutto quando c’è la percezione che anche un trasferimento in ospedale servirebbe a poco. E spesso sono gli stessi medici di famiglia a dirti che chiamare il 118 è inutile. Non sono scelte che si prendono a cuor leggero”.

Cuor leggero è un’espressione che non abita più a Bergamo. Dove le basi del patto sociale sono stravolte. Se una persona a cui si vuol bene giace nel suo letto ammalata gravemente, sempre più spesso si decide di non chiamare l’ambulanza. Ma c’è dell’altro. “Negli ultimi giorni – ci dice il segretario – ho fatto una verifica nelle case di riposo, dove abbiamo riscontrato una media di decessi, tra gli ospiti di ogni singola struttura, del venti percento. Se calcoliamo che i posti assegnati in provincia sono 6048, stiamo parlando di circa 1200 persone decedute. Negli anni scorsi, nello stesso periodo di riferimento, i decessi erano stati mediamente 120. Quindi, nelle rsa, il dato è di dieci volte superiore”.

Eccola qui Bergamo. Una città spedita all’inferno in tre settimane. Quando Rassegna.it ne parlò la prima volta, il 6 marzo scorso, non era neanche zona rossa. Il 10 marzo si è fatto in tempo persino a giocare il ritorno degli ottavi di finale di Champions League, Valencia-Atalanta, anche se proprio la partita di andata, giocata il 19 febbraio allo stadio San Siro di Milano, alla quale assistette circa un terzo della popolazione di Bergamo, è stato da molti esperti indicato come l’assembramento fatale, in cui è divampato il focolaio. Nella promiscuità e nell’allegria esaltante di quel trionfo sportivo il virus potrebbe essersi moltiplicato all’infinito. Come è stato possibile reagire così lentamente? “Le valutazioni compiute si potranno fare ad emergenza terminata, ma quello che leggiamo sui giornali su quanto è successo all’ospedale di Alzano Lombardo è illuminante. Perché lì emerge che già una settimana prima dell’esplosione del virus nel Lodigiano, ben prima del famoso dpcm del 23 febbraio, il primo che dettava norme per il contenimento del contagio, due persone, poi risultate positive, sono state gestite, evidentemente, con troppa leggerezza. Certo, in quel momento non avevamo la percezione che ci potessimo trovare in una situazione simile alla Cina. Fatto sta che quei pazienti sono passati dal pronto soccorso a medicina generale e viceversa, senza che a nessuno sia venuto in mente di prendere tutte le precauzioni del caso. La domenica l’ospedale è stato chiuso per qualche ora e poi ha riaperto, anche se non ci risulta sia stato fatto alcun tipo di sanificazione. Da allora il personale ha iniziato a lavorare con i dispositivi di protezione”.

Eccola, la prima falla. Il ritardo, fatale, con il quale le direzioni ospedaliere hanno fronteggiato l’emergenza. Un ritardo evidenziato da molti lavoratori. “Non c’è dubbio”, conferma Roberto Rossi. “Alcuni ospedali del territorio sono diventati veicolo di contagio. Troppo tardivamente hanno isolato il percorso dei sospetti infetti dal percorso di tutti gli altri pazienti. I pre-triage sono arrivati molto dopo. La scarsità di dispositivi di protezione individuale corretti ha messo in pericolo il personale sanitario e agli operatori rimasti a casa in quarantena, persino a quelli con sintomi, non è stato fatto il tampone né è stata data assistenza. Molti di loro non lavoravano esclusivamente con pazienti Covid-19, ma anche in altri reparti. Chissà quante persone hanno contagiato. Ci sarà tempo per una riflessione approfondita che accerti le responsabilità. Ma la verità è che quando sono arrivate le pattuglie della polizia per controllare che le norme draconiane sul distanziamento sociale venissero rispettate, qui era già troppo tardi”.

Si è chiuso il recinto quando i buoi erano già scappati. E solo adesso, grazie alla pressione dei sindacati sull’ente regionale, si è ottenuto di fare un tampone a tutti gli operatori sanitari sintomatici che sono a casa e stanno male. “Lo abbiamo preteso per tutelare i lavoratori, perché solo in caso di accertamento diagnostico la malattia diventa infortunio. E in caso di decesso certificarlo permette che le spese funerarie siano a carico dell’Inail e che agli eredi sia riconosciuta una rendita”. Queste sono ormai le preoccupazioni del sindacato a Bergamo ai tempi del coronavirus. Resta poco spazio per tutto il resto. Ma quando, per un attimo, ci si discosta dall’eterno presente di morte ed emergenza, si aprono squarci di umanità, ferite profonde che sarà difficile sanare per gli abitanti di questa provincia che oggi sembra vuota. Roberto Rossi vive in un paese a 12 chilometri dal centro città. E continua a recarsi in ufficio tutti i giorni. In una cornice paradossale. Dove non c’è più nessuno, non c’è più traffico. In una delle zone più urbanizzate d’Europa, lungo strade dove si susseguono, senza soluzione di continuità, case, fabbriche, capannoni, centri commerciali, oggi uscire in macchina alle otto del mattino è come viaggiare di notte. “Sembra di essere in un’altra dimensione, in quei film di fantascienza dove, da un giorno all’altro, sparisce metà della popolazione”.

Ma i lavoratori hanno il tempo di chiamarvi? E cosa vi chiedono? “Dal 23 febbraio ad oggi si lavora senza sosta, anche nel week end. Ci sono lavoratori che chiamano per capire cosa fare con i nuovi congedi. Altri perché hanno paura, ma devono andare al lavoro perché gestiscono i cosiddetti minimi essenziali, servizi per prestazioni che non possono subire interruzioni. E poi ci sono lavoratori e delegati che chiamano perché hanno bisogno di sfogarsi, di raccontarti quello che gli succede al lavoro. Perché non possono e non vogliono raccontarlo alla famiglia. E allora chiamano noi. E spesso sono quei dieci minuti di telefonata che te li porti a casa e magari non ti fanno proprio dormire”. La voce di Roberto Rossi si incrina quando gli chiediamo di più. Un esempio di questi racconti. “Quando ti chiama l’infermiere a cui non manca tanto alla pensione, uno corazzato, che lavora nell’emergenza urgenza da una vita, perché ha bisogno di condividere con qualcuno che quella giornata il carico di ossigeno dal quale dipende un’intera palazzina dell’ospedale è arrivato a pochi minuti dall’esaurimento della scorta. Pochi interminabili minuti durante i quali centinaia di persone intubate hanno rischiato di rimanere senza ossigeno. E lui ha pensato che se quel camion avesse forato o avesse trovato qualche semaforo rosso in più, avrebbe visto morire centinaia di persone nel giro di quei pochi minuti”.

L’intervista finisce qui. Roberto Rossi non riesce più a parlare, sopraffatto dalla commozione. Dal peso di una città e di una categoria di lavoratori che sono già collassati emotivamente. E che cercano il sindacato ormai più per un conforto psicologico che altro. Proviamo a chiedergli cosa gli rimarrà addosso di tutto questo. Riesce solo ad accennare un sorriso beffardo e a dirci, con voce rotta, che è una bella domanda, senza avere ancora idea di come rispondere. Proviamo a farlo noi per lui, pensando che difficilmente dimenticheremo qualcosa di questa tragedia. Probabilmente resterà tutto scolpito per sempre nei nostri ricordi. Di quell’anno in cui per Bergamo e il mondo intero al lungo inverno non seguì mai la primavera.