Il rapporto 2019 della Fondazione Moressa, presentato nei giorni scorsi, ha giustamente richiamato l’attenzione sul tema della nuova fase di emigrazione degli italiani verso l’estero, iniziata una decina di anni fa in coincidenza con la fase più acuta della crisi economica, ma che negli ultimi 4-5 anni si è assestata su livelli da tempo sconosciuti, attorno alle 150 mila persone per anno. Come abbiamo già osservato, si tratta di valori non lontani dalla metà di quelli riferiti al fenomeno opposto, l’immigrazione dall’estero, al centro di molta parte del dibattito pubblico.

Vorrei aggiungere in proposito due brevi considerazioni a quelle, assolutamente condivisibili, già sviluppate su Rassegna.it da Enrico Pugliese. Il fenomeno delle emigrazioni risulta incomprensibile se non è inquadrato all’interno della vicenda che in questi anni ha riguardato un’intera generazione di giovani nati nel nostro Paese grosso modo dalla metà degli anni ottanta alla metà dei novanta del secolo scorso. Avrebbe dovuto essere una generazione fortunata, perché molto meno numerosa di quelle precedenti e quindi teoricamente con molte più possibilità di scelta: basti pensare che negli ultimi 20 anni, mentre la popolazione italiana nel suo complesso cresceva di oltre il 6%, pari a circa 3 milioni di abitanti, quella in questa fascia d’età, che oggi ha dai 25 ai 35 anni, è calata del 27%, quasi 2 milioni e mezzo in meno.

Invece le cose sono andate in modo completamente diverso, le occasioni di lavoro sono calate in proporzione ben più di quanto è calata la popolazione e così il tasso di occupazione ha perso 6 punti e mezzo ed è oggi pari al 61,7%, il tasso più basso di tutti i 28 Paesi che compongono l’Unione europea. Contemporaneamente, il tasso di occupazione dai 35 ai 64 anni ha guadagnato oltre 10 punti, passando dal 56,6 al 66,9%. Ma non è tutto: non va mai dimenticato che chi ha meno di 35 anni di età anche quando trova lavoro lo trova molto più spesso precario, part time e con retribuzioni di quasi un terzo più basse della media (dati Inps).

Non accade quindi per caso che la componente di gran lunga prevalente dell’emigrazione sia quella con meno di 40 anni di età. Così come non accade per caso che sia importante, benché non preponderante, come giustamente osserva Pugliese, la quota di emigrati con titoli di studio elevati: solo Grecia e Croazia, tra i Paesi dell’Ue, hanno tassi di occupazione più bassi di quello italiano tra la popolazione con un’istruzione terziaria. Tutto ciò ci rimanda dunque alla particolare e perdurante assenza, nel caso italiano, di politiche di sviluppo in grado di valorizzare il capitale umano normalmente considerato decisivo per il futuro di una nazione: i giovani e in particolare i giovani istruiti, sui quali sono stati invece prevalentemente scaricati i costi sociali della crisi.

Un altro aspetto a mio avviso fondamentale nella lettura dei dati riguarda le migrazioni nell’ambito del territorio nazionale. Per ogni giovane che emigra all’estero ce ne sono circa 2 che migrano da una regione all’altra del nostro Paese. La somma di questi due flussi produce effetti molto diversi nelle varie parti d’Italia. Restringendo il campo di osservazione, come propone la Fondazione Moressa, alla sola popolazione di cittadinanza italiana con età dai 18 ai 39 anni, il risultato degli ultimi 10 anni (2008-2017) è molto differenziato da regione a regione: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Lazio presentano un saldo fortemente positivo, mentre al contrario Campania, Sicilia, Puglia e Calabria segnano perdite molto rilevanti.

Somma saldi migratori verso l’estero e interregionale. Popolazione di cittadinanza italiana dai 18 ai 39 anni di età. Somma anni 2008-2017. Valori assoluti


Fonte: elaborazione su dati Istat

Questo andamento è confermato e anzi accentuato se ci si riferisce soltanto alla quota di popolazione laureata. Soltanto 4 regioni italiane presentano in questo caso un saldo positivo e risultano quindi attrattive per i giovani laureati. Emilia Romagna e Lombardia, in particolare, assorbono queste figure da tutto il resto del Paese, compensando ampiamente le loro perdite verso l’estero. Siamo insomma di fronte a uno dei fenomeni più gravi degli ultimi anni per il nostro Paese: la crescita delle diseguaglianze territoriali, un altro problema che sta assumendo nel tempo proporzioni senza precedenti, ma che pure non ha finora indotto un cambiamento delle politiche e soprattutto dei modelli di intervento pubblico.

Giuliano Guietti è presidente dell’Ires Emilia Romagna