La quarta rivoluzione industriale riguarda anche l’Africa. La formula, coniata dall’economista Klaus Schwab, spiega l’avvento delle nuove tecnologie e la trasformazione, o meglio la combinazione, del regno digitale, fisico e biologico. Robotica, algoritmi, intelligenza artificiale, realtà aumentata ne sono le componenti principali. Come abbiamo scritto qui, tutto questo sta già cambiando il mondo del lavoro africano. Ma acuisce i contrasti in un continente dove le emergenze sono la povertà, la disuguaglianza, la guerra, il cambiamento climatico, le migrazioni. E rischia di produrre nuove esclusioni.

Di cosa stiamo parlando? Un esempio tra tanti: l’Ilo prevede che, entro il 2030, 375 milioni di giovani raggiungeranno l'età lavorativa nell'Africa subsahariana. La maggior parte di loro cercherà un’occupazione, e sostentamento, nell’economia rurale. Non nell’economia digitale.

Un altro esempio. Maureen Chadi Kalume è un avvocato dell'Alta Corte del Kenya, e si occupa di diritti umani. Tempo fa ha analizzato lo sviluppo dell’economia digitale nel suo Paese, anche alla luce della pandemia. E ha concluso che “Il Kenya, come molti paesi della regione sub-sahariana, non è pronto per la quarta rivoluzione industriale”. Per Kalume è evidente “una disomogeneità e, in alcuni casi, una carenza di competenze tecnologiche e di connettività Internet”. Il coronavirus ha sì imposto il lavoro a distanza o a domicilio, ma si tratta di un “modello che trascura le esigenze dell'economia keniota, l'80% della quale opera nel settore informale, che non può essere interamente spostato nell'arena digitale”.

A proposito di esclusione, Kalume ricorda che il popolo dell’economia informale non telelavora, lavora alla giornata e non è coperto da assicurazioni sanitarie né sussidi sociali, il che durante l’epidemia ha fatto esplodere una “situazione catastrofica”, tagliando fuori centinaia di migliaia di persone dagli aiuti economici e dalle cure. Un paese diviso in due parti, una più grande e l’altra più piccola. In altri tempi si sarebbe parlato di digital divide.

Prima del Covid, in Kenya, “la possibilità di lavorare da casa era rara”, conclude Kalume, ma ancora oggi “non molti possono permettersi Internet, e ci sono sfide di connessione e accessibilità. L'unica materia prima necessaria è la connettività”.

Intanto restano le vecchie emergenze da affrontare. Solidar, un network europeo di associazioni e sindacati, in un recente documento ha indicato le priorità che l’Unione europea dovrebbe fissare nel suo programma di partenariato regionale per l'Africa subsahariana. Quali sono? Ad esempio la necessità di garantire l'inclusione dei giovani e la parità di genere, l'integrazione dei diritti delle donne e dei bambini. Naturalmente c’è la lotta al lavoro minorile: si stima che circa 72 milioni di bambini africani siano sfruttati, e che circa 31 milioni di loro siano coinvolti in lavori pericolosi.

Un’altra priorità è il sostegno all'istruzione di qualità: un “diritto umano fondamentale e una precondizione per l'emancipazione personale”, sostiene il documento di Solidar.

Infine il tasto dolente della migrazione: per Solidar è fondamentale che l’Europa promuova “percorsi legali” attraverso un Programma regionale di sostegno alla migrazione. Il network sottolinea l'importanza di “aumentare i percorsi per la migrazione legale” come mezzo per ridurre i viaggi clandestini di rifugiati e altri migranti forzati: “I diritti umani devono essere centrali nelle strategie dell'Ue, lungo tutto il tragitto dai paesi di origine, attraverso i paesi di transito e i paesi di destinazione”.

Non si può fare una quarta rivoluzione industriale se prima non si tutelano i diritti umani basilari.