Rassegna stampa internazionale
L'Europa tra crisi climatica ed economica

Mentre le Nazioni unite chiedono piani di stimolo green, i Paesi europei fanno i conti con la disoccupazione, le difficoltà sociali e, in alcuni casi, con le richieste di Bruxelles su pensioni e lavoro
L’Onu chiede piani di stimolo più verdi per limitare il riscaldamento globale a 2° centigradi
Le Monde, 10 Dicembre 2020
La crisi sanitaria avrà solo un effetto trascurabile sul riscaldamento globale, a meno che i paesi non colgano l'opportunità per accelerare la transizione ecologica.
La crisi sanitaria è riuscita a rallentare i trasporti, il settore industriale e a frenare in generale l’economia, ma avrà un effetto trascurabile sul riscaldamento globale, nonostante il previsto calo del 7% delle emissioni nel 2020. Le migliaia di miliardi destinati ai piani per la ripresa economica possono, invece, cambiare il quadro della situazione e le dimensioni del disastro che il mondo dovrà affrontare. Una ripresa verde, ovvero finanziamenti massicci per la transizione ecologica, permetterebbe di contenere l’aumento delle temperature a 2° centigradi per la fine del secolo, porterebbe i paesi ad avvicinarsi agli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima. Il mantenimento delle politiche climatiche in corso, ancora diffusamente insufficienti, ci porterebbe, invece, ad un riscaldamento globale tra i 3° e i 4° centigradi, con conseguenze sul clima molto più vaste e distruttive. Che sia una visione ottimista o pessimista, l’ultimo bilancio presentato, mercoledì 9 dicembre, dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) sull’azione per il clima rappresenta un monito per i governi. La pubblicazione del rapporto avviene prima del vertice ambizioso in tema di cambiamento climatico, organizzato in videoconferenza per sabato 12 dicembre, per celebrare i cinque anni dell’accordo di Parigi sul clima e per rilanciare gli sforzi degli stati nella lotta contro il riscaldamento globale del clima.
Divario troppo importante
Il rapporto dell’Unep sul divario delle emissioni globali, predisposto ogni anno sulla base degli ultimi dati forniti da una squadra internazionale di scienziati, confronta i diversi impegni assunti dagli stati volti a ridurre le emissioni a effetto gas serra con la riduzione richiesta per il rispetto dell’accordo di Parigi sul clima del 2015, ovvero per contenere l’aumento della temperatura “ben al di sotto di 2° centigradi rispetto ai livelli preindustriali”, in modo da non superare 1,5° centigradi. Non c’è dubbio che il divario è troppo importante. Gli esperti dell’Unep affermano che “Il mondo non è assolutamente sulla strada giusta per colmare questa lacuna e per rispettare gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima”, mentre il 2020 sta diventando uno dei tre anni più caldi della storia.
Le emissioni di gas a effetto serra hanno raggiunto nel 2019 il record storico di 59 miliardi di tonnellate (giga tonnellate) di CO2. Sono aumentate del 2.6% rispetto al 2018, in seguito all’aumento degli incendi boschivi. Per Anne Olhoff, una delle autrici principali del rapporto, ricercatrice presso l’università tecnica in Danimarca, “L’aumento delle emissioni in questo decennio (in media l’1,4% l’anno) è minore rispetto al decennio precedente, ma al momento non c’è alcun segnale che porti ad una riduzione sostenibile delle emissioni”. Le dinamiche sono molto diverse da paese in paese, in generale il rilascio delle sostanze pericolose sono in calo nei paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ma sono in aumento altrove”. Tra i quattro paesi inquinatori, le emissioni della Cina e dell’India sono in aumento, mentre nei paesi degli Stati Uniti e dell’Unione europea (incluso il Regno Unito) sono in calo, nonostante i paesi sviluppati delocalizzino parte del loro inquinamento. Secondo le prime stime, le emissioni di CO2, il principale gas a effetto serra, dovrebbe diminuire del 7% nel 2020 a seguito della pandemia, soprattutto a causa del fortissimo rallentamento dei trasporti.
Questa riduzione di emissioni gas a effetto serra è la più grande registrata dalla Seconda guerra mondiale ed è maggiore a quella osservata dopo la crisi finanziaria del 2008 – 2009 (1,4%). Tuttavia, questa riduzione potrebbe non durare, dato che è forzata e non deriva dai cambiamenti strutturali dell’economia.
Gli scienziati prevedono, quindi, un aumento delle emissioni a partire dal 2021, come conseguenza della ripresa della crescita economia basata principalmente sull’uso dei combustibili fossili. In questo caso, la pausa registrata nel 2020 non avrò alcun effetto nel lungo periodo: si tradurrà in un calo della temperatura globale solo dello 0,01° centigradi entro la metà del secolo. Ma i paesi possono disegnare un altro futuro. Le dimensioni dei piani per la ripresa economica sono inedite. 1.200 miliardi di dollari, ovvero 9.900 miliardi di euro, il 12% del Pil mondiale, rappresentano un’opportunità notevole per accelerare la transizione ecologica e decarbonizzare l’economia.
Occasione sprecata
Secondo i calcoli dell’Unep, una ripresa verde permetterebbe di ridurre del 25% il livello delle emissioni entro il 2030, se si continuerà con le politiche attuali, il mondo avrà due possibilità su tre di limitare il riscaldamento globale al di sotto di 2° centigradi. Tra le misure cui dare priorità, l’Onu elenca il sostegno diretto alle tecnologie ed alle infrastrutture a basse emissioni di carbonio (energia rinnovabile, trasporti, costruzioni, etc.), la riduzione dei sussidi ai combustibili fossili, il divieto di costruzione di nuove centrali elettriche a carbone e la promozione di soluzioni basate sulla natura, come il rimboschimento su larga scala.
L’Unep avverte che è stata un’occasione mancata. Secondo le ultime analisi condotte dall’istituzione onusiana, le misure di aiuti e di ripresa economica hanno sostenuto soprattutto i settori ad uso intensivo di carbonio (il settore dell’aeronautica, dell’automobile, etc.) o ad emissioni zero. Solo un quarto dei paesi membri del G20 (la Francia, il Regno Unito, la Germania e la Corea del Sud) hanno destinato una parte importante delle spese, fino al 3% del Pil, per attuare misure in favore della transizione ecologia. L’Unep indica che è ancora possibile invertire questa tendenza nelle prossime riforme fiscali e nei bilanci, senza la quale “gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima saranno ancora irraggiungibili”. Un altro spiraglio di speranza risiede nel recente aumento degli impegni assunti dai paesi per conseguire l’obiettivo zero in termini di emissioni di carbonio per la metà del secolo. La Cina, il Giappone, la Corea del Sud o l’Africa del Sud si sono impegnati negli ultimi due mesi, come l’Unione europea e il Regno Unito, a non rilasciare nell’atmosfera più gas serra di quanti ne possano assorbire i pozzi naturali (foreste, etc.) o di quanto ne possano assorbire le tecnologie di stoccaggio del CO2. A metà novembre, 126 paesi che coprono il 51% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra hanno adottato, annunciato o previsto il raggiungimento dell’“obiettivo zero emissioni”, un dato che potrebbe salire al 63% se gli Stati Uniti si unissero a questa iniziativa, come si è impegnato a fare il presidente eletto Joe Biden.
L’Unep precisa che se fossero rispettati questi obiettivi, il pianeta si troverebbe sulla strada di garantire tra i 2,5° e 2,6° centigradi. L’Unep, inoltre, osserva che “sebbene questi obiettivi siano incoraggianti” evidenziano la “grande differenza” tra l’ambizione di lungo termine (2050) e il “nuovo livello del tutto insufficiente” degli obiettivi di breve termine (2030), assunti su base volontaria dai 196 paesi firmatari dell’accordo di Parigi. L’istituzione onusiana ribadisce da diversi anni che questi impegni climatici per il 2030 ci portano ad un riscaldamento globale di 3,2° centigradi. I paesi devono, pertanto, triplicare i loro contributi nazionali per non superare i 2° centigradi e moltiplicarli per 5 per non superare 1,5° centigradi.
L’Unep avverte che “per essere concreti e credibili, gli impegni relativi alla neutralità in termini di emissioni di carbonio devono tradursi urgentemente in politiche e in azioni forti nel breve termine” e invita gli Stati a presentare all’Onu piani climatici più ambiziosi entro la prossima conferenza internazionale sul clima, Cop 26, che si terrà a Glasgow, in Scozia, nel novembre del 2021.
Nessun paese membro del G20 ha presentato il piano climatico che andasse in questa direzione prima della chiusura del rapporto Unep. Il Regno Unito ha annunciato l’obiettivo di ridurre le emissioni, entro il 2030, almeno del 68%, rispetto al 1990, e l’Unione europea potrebbe adottare, durante il vertice del 10 e 11 dicembre, l’obiettivo di ridurre le emissioni del 55%. Ma, prima di aumentare gli obiettivi, devono ancora raggiungere quelli fissati.
Per il momento, i paesi membri del G20, che rappresentano i tre quarti delle emissioni, non sono ancora sulla buona strada per rispettare gli impegni che hanno assunto per il 2030, considerato il ritardo di cinque paesi (gli Stati Uniti, l’Australia, il Brasile, il Canada e la Corea del Sud).Di conseguenza, le politiche in corso (attuate prima del Covid-19) ci stanno portando verso un riscaldamento globale di 3,4° a 3,9° centigradi.
Due leve d’azione
Per accelerare ulteriormente l’ambizione climatica, il rapporto di quest’anno si concentra su due leve d’azione. Innanzitutto, il settore aereo e marittimo rappresenta il 5% delle emissioni di gas a effetto serra, un dato destinato ad aumentare notevolmente. Il rapporto avverte che il progresso tecnologico conseguito può migliorare l’efficienza energetica dei trasporti, ma non è sufficiente a decarbonizzare questi settori in ragione dell’aumento atteso della domanda, e aggiunge che la compensazione del carbone “dovrebbe essere solo una soluzione temporanea”.
Inoltre, bisognerà passare dai combustibili fossili ad altre fonti di energia (biocarburanti, idrogeno, etc.), il cui costo ridurrà la domanda dei suddetti trasporti. Inoltre, l’Unep sta esaminando gli stili di vita, quando circa i due terzi delle emissioni globali sono legate al consumo domestico. I governi devono permettere ai consumatori di ridurre l’impronta di carbonio, incoraggiando l’uso della bicicletta e la condivisione dell’auto, la sostituzione dei voli interni con il treno, oppure migliorando l’efficienza energetica delle abitazioni. La riduzione delle emissioni deve avvenire in uno spirito di giustizia sociale. Secondo l’ONU, l’1% della popolazione più ricca al mondo, le cui emissioni sono più del doppio delle emissioni del 50% della popolazione più povera, “dovrà ridurre la sua impronta di almeno il 30% per mantenere gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima”.
Per leggere l'articolo originale: L’Onu plaide pour des plans de relance plus verts afin de limiter le réchauffement à 2 °C
Le prospettive per l'occupazione nel Regno Unito sono più deboli che in Europa
The Guardian, 8 dicembre 2020
Sempre più datori di lavoro prevedono nel primo trimestre del 2021 di eliminare posti di lavoro anziché assumere, mentre il Covid continua la sua morsa sull’economia
La minaccia di un'impennata della disoccupazione nel nuovo anno è stata evidenziata da un rapporto sul mercato del lavoro che mostra che le prospettive per l'occupazione nel Regno Unito sono le più deboli in Europa. Dopo un inasprimento delle restrizioni determinate dal Covid-19 in ottobre e novembre, secondo l’indagine sulle prospettive occupazionali condotto da ManpowerGroup, le possibilità di trovare un lavoro nel settore della vendita al dettaglio e alberghiero sono attualmente peggiori rispetto al primo lockdown nazionale fatto in primavera.
L'indagine realizzata su 1.300 datori di lavoro ha evidenziato che stanno progettando nei primi tre mesi del 2021 di perdere più posti di lavoro che assumere nuovo personale, nonostante vi siano segnali di una ripresa delle assunzioni nel settore finanziario e delle costruzioni. Il risultato di –6 punti percentuali è stato il risultato più basso tra i 24 paesi oggetto dell'indagine. Mark Cahill, amministratore delegato di ManpowerGroup nel Regno Unito, ha dichiarato: "I principali dati stanno andando costantemente nella giusta direzione e stiamo assistendo a una continua ripresa nei settori chiave, come il settore della finanza e degli affari, che ci danno motivo di essere contenti mentre si avvicina il 2021.
“Tuttavia, nonostante questa tendenza positiva, il Regno Unito rimane il paese meno ottimista in Europa, per la continua incertezza sulla Brexit e per le conseguenze di grandi dimensioni della seconda ondata del Covid-19. Inoltre, i dati mostrano che solo il 49% dei datori di lavoro si aspetta che le assunzioni tornino ai livelli pre-pandemici entro i prossimi 12 mesi ". L'attività di vendita al dettaglio e l'attività alberghiera danno lavoro a circa 6 milioni di lavoratori, ma Manpower ha affermato che le due attività hanno subito l'impatto del lockdown di quattro settimane in Inghilterra, dal 5 novembre al 2 dicembre, dove le assunzioni hanno raggiunto il livello più basso mai registrato. Anche i datori di lavoro di Londra hanno segnalato che le assunzioni hanno raggiunto il minimo storico.
In un rapporto separato, il British Retail Consortium (Brc) ha affermato che i consumatori hanno incrementato la spesa durante le quattro settimane di lockdown in Inghilterra, ma l'hanno fatta online. Il controllo mensile della Brc-Kpmg ha mostrato che l'aumento annuo di quasi il 50% delle vendite online di prodotti non alimentari è all'origine del piccolo aumento dello 0,9% della spesa totale di novembre. Quasi il 60% della spesa non alimentare del mese scorso è avvenuta online. Nel frattempo, il fallimento delle aziende Debenhams e Arcadia è stato contestualizzato dai dati dell'azienda di servizi finanziari, Barclaycard, che mostrano che la spesa di novembre nei grandi magazzini e nei negozi di abbigliamento è in calo, rispettivamente del 18% e del 13%. La spesa complessiva è diminuita di poco meno del 2%, ha affermato l'azienda che emette carte di credito.
Cahill ha detto: “L'ulteriore declino delle principali vie dello shopping della Gran Bretagna è profondamente preoccupante. Negozi, ristoranti e bar sono rimasti per lo più chiusi in tutto il paese, e spesso i giovani che costituiscono un'ampia percentuale di lavoratori in questo settore hanno sopportato il peso”.
“La chiusura dei negozi a Londra sono un duro ricordo dell'impatto economico della pandemia. Molte delle più grandi aziende della città hanno mantenuto i loro piani di assunzione all'inizio del primo lockdown, ma ora stanno adottando un approccio attendista, rimandando le assunzioni a quando l'impatto dell'uscita dall'Ue e dal Covid-19 sarà più chiaro nel nuovo anno. "
Helen Dickinson, amministratore delegato della Brc, ha detto: “Novembre ha frenato la crescita delle vendite osservata nei tre mesi precedenti. Le vendite di prodotti non alimentari in negozio hanno registrato un calo significativo a seguito del lockdown in Inghilterra. Tuttavia, alcuni rivenditori sono riusciti a compensare una parte delle vendite perse attraverso maggiori vendite online e attraverso il servizio di vendita click-and-collect, garantendo ancora il servizio ai propri clienti.
“I lunghi periodi di sconto hanno contribuito a diffondere la domanda e offerto ai clienti grandi affari per regali, comprese le ultime console per i giochi, per i dispositivi elettronici e accessori per la casa. Tuttavia, la differenza tra le vendite di prodotti non alimentari online e in negozio è aumentata, con il più alto tasso di vendita online registrato da maggio. I negozi non alimentari hanno registrato ancora una volta un calo a due cifre con l'introduzione delle restrizioni più severe in tutta l'Inghilterra".
Paul Martin, responsabile della vendita al dettaglio della Kpmg nel Regno Unito, ha dichiarato: “L'evoluzione del Black Friday che è passata da un giorno a più settimane ha ulteriormente distorto i modelli commerciali e probabilmente ha anticipato gli acquisti natalizi. Nonostante ciò, i rivenditori delle vie principali dello shopping sperano ancora che nelle prossime settimane i consumatori calpestino i marciapiedi mentre loro combattono duramente per recuperare il terreno perduto in questo momento cruciale ".
Per leggere l'articolo originale: Outlook for jobs in UK is weakest in Europe as Covid continues to hit economy
La mobilitazione sociale anestetizzata dalla violenza della crisi
Le Monde, 8 dicembre 2020
Tra confinamento, disoccupazione parziale o telelavoro, i lavoratori, che si sono fatti carico della durezza della recessione, sembrano essere bloccati, nonostante l'ondata di soppressione di posti di lavoro
Hanno appeso le loro magliette arancioni con la scritta "Lmt Belin" al cancello dell'azienda a Lavancia-Epercy nel Dipartimento del Giura. Su ciascuna maglietta un disegno o uno slogan scritto con inchiostro nero, che riassume il disagio tra i lavoratori: il gruppo tedesco che possiede questa piccola media impresa porrà fine all'attività nonostante i buoni risultati raggiunti. Molti hanno scelto metafore macabre, croci o una lapide con i loro nomi accompagnati da due date: quella della loro assunzione e quella del loro licenziamento. All'altro capo del reparto, nello stabilimento Jacob Delafon di Damparis, le maglie erano bianche. Prima dell'estate, le maglie dei lavoratori di La Halle, a Indre, erano azzurro scuro. Negli ultimi mesi in Francia, sono nati qua e là tanti simboli. Anche se la disoccupazione parziale e altri programmi di sostegno alle imprese avviati dallo Stato contribuiscono a contenere i problemi sociali, le cifre parlano da sole. Secondo il Dares, il servizio statistico del ministero del Lavoro, sono state annunciate in Francia, a partire dal 1° marzo, oltre 67.000 violazioni dei contratti di lavoro, rispetto alle 27.000 dello stesso periodo del 2019. E gli osservatori concordano sul fatto che il peggio deve ancora arrivare. Per ora, quasi tutto accade con profilo basso. Nessuna mobilitazione spettacolare o lunga occupazione di fabbrica con tende e fuochi come abbiamo visto nell'inverno 2008-2009. Venerdì 27 novembre, durante gli interventi di un sindacalista della Cftc e della parlamentare di Les Républicaine presso l'azienda Lmt Belin, che produce utensili da taglio per l'industria, sono stati incendiati tronchi in un barile sventrato solo per poche ore. È la loro prima mobilitazione "visibile all'esterno", anche se sanno che l’impianto è minacciato dal 31 gennaio, e il piano per salvaguardare l'occupazione (Pse) è stato lanciato il 2 ottobre. "Siamo stati troppo gentili", lamenta un operaio. "Speravamo che con la nostra professionalità, il gruppo avrebbe cambiato idea o che un acquirente avrebbe visto che eravamo brave persone, ma no", afferma Isabelle Courtet, della Cfdt. La stessa speranza che l'azienda fosse stata acquisita ha dato forza ai lavoratori dello stabilimento Jacob Delafon. "Se non si presenta nessun acquirente, dovremo trovare un lavoretto, qualcuno che ci assuma", anticipa Jean-Claude, 41 anni. "Voglio che il mio curriculum vitae rimanga pulito", insiste il collega Frédéric. Le difficoltà a trovare lavoro che incontrano i lavoratori di alcune lotte emblematiche, come quelle alla Continental a Clairoix (2009) o alla Goodyear ad Amiens (che ha chiuso nel 2014), riguardano tutti. "Mobilitarsi in un contesto del genere è difficile", afferma Baptiste Giraud, docente senior di scienze politiche all'Università di Aix-Marseille.
Durante le grandi crisi economiche, le cui conseguenze durano nel tempo, i lavoratori seguono un ragionamento economico che li predispone a una forma di ineluttabilità verso quanto stanno vivendo". Presso lo stabilimento Jacob Delafon si è parlato di organizzare una manifestazione per le strade di Damparis (Dipartimento del Giura). "Sarà qualcosa di familiare, che si svolgerà in un'atmosfera tranquilla, senza bandiere sindacali", hanno insistito i rappresentanti dei lavoratori. Il sindaco della città li ha scoraggiati a farlo. "Avremmo avuto l'impressione di un funerale, sarebbe mancata solo una bara e il prete davanti al corteo", afferma Michel Giniès. "Quando fai una marcia bianca, significa che c'è un morto. Non è una strategia di lotta", ha aggiunto Richard Dhivers, segretario della Cgt del Dipartimento del Giura. Non è marciando di sabato che si crea un rapporto di forza". Come a Béthune (Dipartimento del Passo di Calais), dove hanno marciato invano contro la chiusura della Bridgestone, in ogni territorio si è svolta una marcia nel fine settimana, alle quali hanno partecipato i lavoratori minacciati di licenziamento, le loro famiglie e i funzionari eletti, indossando una sciarpa blu-bianco-rossa sulle spalle. Recentemente, i negozianti e poi i commercianti della montagna si sono puntualmente espressi contro le decisioni del governo. Ma in generale, "il clima è stagnante", ammette Philippe Martinez negli uffici del sindacato della raffineria di Grandpuits (Dipartimento della Senna e Mana). Il 19 novembre, il segretario generale della Cgt ha partecipato ad una riunione sindacale di un'ora con i lavoratori dell'impianto, dove sono minacciati 150 posti di lavoro. "C'è una certa rassegnazione", ha detto Martinez. Ma siamo in un periodo di grande inquietudine, con una forte preoccupazione per l'occupazione e per la salute. Per i lavoratori, è, quindi, difficile lottare se non vedono alternative ai licenziamenti. Come sindacato, dobbiamo lavorare con loro su progetti alternativi". "La crisi del Covid-19 sta scaricando tutto il suo peso sul movimento sociale. "Come se il confinamento o anche solo un lavoro parziale fosse un coperchio assordante", ammette Yves Veyrier, numero uno di Force Ouvriere. Come ci si può mobilitare quando le restrizioni agli spostamenti ostacolano la mobilitazione e limitano il numero di persone che possono riunirsi? Quando i collettivi di lavoro sono divisi tra lavoratori a casa, il telelavoro o il lavoro a orario ridotto? Come possiamo costruire un rapporto di forza? Lazare Razkallah, segretario della Cgt del Comitato economico e sociale, avrebbe voluto che il contrattacco rispecchiasse la violenza simbolica dell'annuncio del piano sociale. L'amministratore delegato olandese ha annunciato in una videoconferenza dal Marocco, a giugno, il piano per ridurre fino a due terzi il personale in Francia, ossia 583 posti di lavoro. Razkallah non è un grande sostenitore delle riunioni a distanza, ma si è ravveduto in quanto è l’unico modo per raggiungere il numero massimo di lavoratori, la maggior parte dei quali, nel lavoro a orario ridotto, non ha messo piede sul posto di lavoro da marzo. Ma ha i suoi limiti. "È positivo per informare le persone, ma non ha alcun valore per la direzione", afferma Razkallah. Se la sede centrale fosse stata aperta, le cose sarebbero andate diversamente. Questo ha permesso all'azienda di realizzare il suo piano". "Il confinamento non lascia spazio ai lavoratori per portare la loro lotta in piazza", aggiunge Timothée Esprit, delegato della Cgt alla Toray Cfe, azienda specializzata in fibra di carbonio, nei Pirenei Atlantici. È una preoccupazione di tutti i cittadini sapere che le aziende che hanno ricevuto aiuti pubblici per creare occupazione, ora la stanno distruggendo". Il 25 novembre è stato convocato con i delegati aziendali della Cgt e di Fo davanti al tribunale di Pau perché la direzione ha presentato ricorso al giudice contro lo "sciopero illegale". "La fabbrica è a 30 chilometri di distanza, al di fuori del perimetro autorizzato dal confinamento. Alcuni lavoratori hanno temuto di essere multati se fossero venuti a sostenerci", ha detto il rappresentante eletto, che si è mobilitato contro l'eliminazione di 42 posti di lavoro. Toray Cfe è una delle poche aziende ad aver avuto più giorni di sciopero. Sono nati altri movimenti a Verallia nella regione del Cognac (Dipartimento della Charente), dove il tentato suicidio di un dipendente ha portato i suoi colleghi a interrompere il lavoro dal 24 novembre, mentre 80 posti di lavoro erano in pericolo. Pascal Gentelet, delegato del sindacato della Cfdt ha affermato che per dodici giorni, un terzo dei 470 dipendenti della General Electric dello stabilimento di Villeurbanne (Rodano) ha fatto uno "sciopero totale e senza limiti" per protestare contro un piano che prevede la perdita di 250 posti di lavoro. È difficile sensibilizzare tutti i lavoratori", sottolinea. Circa la metà della forza lavoro pratica il telelavoro, è distaccata dall'azienda e si sente meno coinvolta dalla nostra azione".
Con un bilancio mensile ridotto, che senso ha interrompere il lavoro quando si lavora a orario ridotto? È complicato perché non ha alcun impatto sul portafoglio del datore di lavoro", lamenta Razkallah che sente di dover fare "a meno dei lavoratori per spostare le linee nelle trattative del piano per salvaguardare l'occupazione". Alcuni lavoratori con un bilancio mensile ridotto sottolineano che lo sciopero è costoso. "Con il prestito per la casa e l'automobile, il 15 del mese siamo già in rosso", ha detto Virgile, 34 anni, operatore preso lo stabilimento Jacob Delafon. Sono felice di fare sciopero, ma non posso permettermi di perdere lo stipendio nei giorni di sciopero". Per Baptiste Giraud, i sindacalisti, quando sono presenti, "si trovano di fronte a un dilemma": "È nel loro interesse mobilitarsi per attirare l'attenzione dei parlamentari eletti e dei media e costruire un rapporto di forza. Ma questo aumenta il costo della mobilitazione dei lavoratori. In un periodo di disoccupazione di massa, la paura principale è quella di restare disoccupati". Insieme ai suoi colleghi, Lazare Razkallah non riesce a vederli tutti battersi dal loro angolo. Qualche settimana fa è stato lanciato l'Appello del Tui nel tentativo di unire le lotte. Il 29 novembre si è tenuto un secondo incontro in videoconferenza dei rappresentanti di "una cinquantina di aziende con Cargill, Bridgestone, Auchan ma anche piccole aziende", ed è stata decisa una manifestazione nazionale per il 23 gennaio 2021 a Parigi. "Non siamo vittime, continueremo a combattere", ha detto. Sentiamo una nuova rabbia che potrebbe non essere espressa nell'immediato", avverte Yves Veyrier. Ma se i lavoratori saranno lasciati fuori al freddo alla fine della crisi, l'esplosione sociale potrà non limitarsi a questo o quel luogo".
Per leggere l'articolo originale: La mobilisation sociale anesthésiée par la violence de la crise
Bruxelles sollecita la Spagna a riformare le pensioni e il mercato del lavoro
El Pais, 7 dicembre 2020
La Commissione europea chiede, inoltre, di risolvere la frammentazione della normativa regionale
L’economia spagnola ha un potenziale problema con le pensioni. Da decenni l’occupazione è il tallone d’Achille con il tasso di disoccupazione più alto dell’Atlantico del nord. La pandemia ha evidenziato le cicatrici dello stato delle autonomie. Bruxelles vuole utilizzare gli aiuti europei per realizzare le riforme strutturali che la Spagna da anni non riesce a portare a termine: chiede che si realizzino riforme in tre settori, nel settore delle pensioni, del lavoro e dell’unità del mercato. Secondo le fonti consultate, chiede al Governo di presentare un piano credibile e coerente, in cambio degli aiuti europei.
La riforma è una parola maledetta perché negli ultimi anni è stato solo un eufemismo per evitare di dire tagli e perché è stata la troika (Commissione, Bce e Fmi) ad imporre le misure di austerità. Bruxelles ha cambiato questo approccio: non impone, ma invita i paesi bisognosi ad approvare le misure strutturali in cambio di una marea di finanziamenti, per un totale di 750.000 milioni di euro, di cui la metà a fondo perduto, che ti permettono di ingoiare la pillola con meno dolore. La Commissione vuole approfittare dell’iniezione massiccia di aiuti per vincolare le riforme che, secondo la Commissione, la Spagna starebbe realizzando da anni solo in parte. Bruxelles chiede al governo di impegnarsi su tre assi principali: garantire la sostenibilità del sistema pensionistico, introdurre regole nuove per ridurre il ricorso al lavoro temporaneo e una legge sull’unità del mercato che evita la frammentazione della regolamentazione regionale. La Commissione europea chiede, inoltre, di vincolare parte dei finanziamenti alla realizzazione delle riforme, una condizionalità che entra attraverso la porta di servizio, anche se Bruxelles e il Fmi sostengono che questo potrebbe essere un incentivo se gli aiuti saranno utilizzati per compensare nel breve termine i costi relativi a qualsiasi riforma importante. Il nuovo mantra è pagare per realizzare riforme.
Le fonti consultate presso vari ministeri indicano che questa sarebbe anche la strada intrapresa dal palazzo di governo della Moncloa. La Spagna sta negoziando a Bruxelles un pacchetto di riforme, che prevede di presentare a gennaio, in contemporanea con l’annuncio dei progetti a cui saranno destinati i fondi europei.
Gli adeguamenti alla legge sull’unità del mercato, promossi dal Partito popolare, permetteranno di risolvere la frammentazione della normativa regionale, in linea con quanto richiesto da Bruxelles, senza scomodare i partiti nazionalisti, che hanno aumentato la loro influenza nell’equilibrio instabile di sostegno al Governo. Il ministro José Luis Escriva ha preparato una lista delle riforme, che ha ricevuto l’approvazione con il Patto di Toledo, anche se la Commissione non ha abbastanza fiducia nei numeri. La vicepresidente Nadia Calviño e il ministro del lavoro, Yolanda Diaz, si stanno battendo per imporre una riforma del lavoro che lascerebbe le cose più o meno le stesse, nel caso vincessero le tesi di Calviño, e che abrogherebbe parzialmente la riforma del Partito Popolare se dovessero prevalere le idee di Diaz e di altri ministri, tra cui i ministri del Partito Socialista. Il governo sta già lavorando sulle questioni minori di questi settori, gestendo i rapporti, appena nati, e facendo sforzi con le parti sociali nelle riunioni interne e a Bruxelles. Ma, in attesa della legge sul bilancio, il governo non ha mai accennato ai dettagli essenziali, che potrebbero far scoppiare all’interno del governo liti con l’opposizione e le parti sociali, a seconda del risultato finale.
Bruxelles intende approvare ad aprile i piani nazionali per la ripresa economica per inaugurare il lancio di titoli obbligazionari dell’Unione europea prima dell’estate. Intende, per allora, vincolare le riforme che saranno inserite nel documento che sostituirà le raccomandazioni del Semestre europeo, uno di quei progetti di Bruxelles che guida la politica economica europea. È arrivato ora il momento di scambiarsi i documenti, in cui risultano le divergenze nelle tabelle excel, del dare e dell’avere tra Madrid e Bruxelles, che sottolineano il coinvolgimento del governo spagnolo. I negoziati si ripeteranno con ciascuno dei 27 Stati membri e saranno anch’essi difficili con l’Irlanda, alla quale è richiesto di riformare il proprio sistema fiscale in modo che non sia più uno pseudo paradiso fiscale nel sistema dell’euro.
Fonti dell’Unione europea sottolineano che la Spagna è tra i paesi ai quali bisogna prestare massima attenzione. Le previsioni dell’Unione europea parlano di crollo dell’economia, con un calo del 12,4% nel 2020, con un debito in aumento. Con la seconda ondata dei contagi, gli aggiustamenti fiscali sembrano essere stati messi in secondo piano, almeno fino a quando Berlino non deciderà di concludere il programma per le misure di stimolo. Bruxelles teme il momento in cui scadranno le misure di protezione dei posti di lavoro e delle imprese. Una fonte di alto livello dell’Unione europea ritiene che, oltre alla crisi provocata dalla pandemia, il paese stia affrontando un cambiamento strutturale che necessita di riforme, come hanno richiesto la Bce e il Fmi.
Il vicepresidente Calviño sta presiedendo i colloqui per la parte spagnola con il vicepresidente Valdis Domrovskis e il commissario europeo Paolo Gentiloni, che hanno entrambi adottato a prudenza nelle loro dichiarazioni, ma gli occhi dei tecnici sono puntati sulle riforme, come il recente aumento delle pensioni. Il vicepresidente Calviño ha ammesso che Bruxelles sta “analizzando” le conseguenze delle misure adottate in un “clima molto positivo”. Per le fonti europee la posizione è chiara: non è piaciuto che il governo del Partito popolare abbia vincolato le pensioni all’indice nazionale dei prezzi al consumo e vuole che le misure coprano la spesa senza far aumentare il debito. Bruxelles spera che si realizzino anche le misure per il mercato del lavoro. La Commissione si oppone all’abrogazione totale o parziale della riforma del governo guidato dal Partito popolare e si aspetta che siano presentate misure in due settori, nel settore dei servizi dell’occupazione e della riduzione del lavoro temporaneo, uno dei più alti in Europa. Altre fonti europee consultate sperano in una specie di piano per riqualificare i lavoratori che perderanno il lavoro, soprattutto nel settore dei servizi, quando, il prossimo anno, terminerà la copertura del sistema Erte. Calviño ha riferito a Bruxelles che questo pacchetto sarà discusso con le parti sociali. Per le fonti europee, “la Spagna presenta un problema di sostenibilità delle pensioni del mercato del lavoro. Non ci troviamo nel 2012. Non chiediamo adeguamenti fiscali che potrebbero avere effetti negativi nel breve termine, né imponiamo soluzioni, ma la Spagna deve definire le misure”.
Per leggere l'articolo originale: Bruselas apremia a España a reformar las pensiones y el mercado laboral
Il segretario generale delle CC.OO, Unai Sordo: “Se si lascerà la riforma del lavoro così com’è, sarà difficile continuare con gli accordi del dialogo sociale”.
El Pais, 7 dicembre 2020
Il segretario generale delle CC.OO rivendica il rafforzamento dei servizi pubblici e ammette che l’aumento del salario minimo potrebbe rallentare la congiuntura economica
Quando è stato chiesto a Unai Sordo (48 anni, Barakaldo) se crede che i sindacati e le associazioni datoriali usciranno da questa crisi rafforzati della loro capacità di fare accordi, contrariamente a quanto è accaduto precedentemente, il segretario generale delle CC.OO risponde che i suoi predecessori di sicuro avrebbero reagito come hanno reagito loro nella situazione attuale. Non sono privilegiato. Se la crisi precedente fosse stata simile a questa, le parti sociali avrebbero agito allo stesso modo, in modo rapido, efficace e con prontezza.” Non improvvisa la risposta. Non lo fa nessuno…o non sembra a causa del suo carattere riflessivo.
D. Ha sempre difeso il governo di coalizione del Psoe e di Unidas Podemos, come si sente quando vede divisioni?
R. In Spagna c’è un entusiasmo eccessivo nel tracciare continuamente i profili dei politici. Ma non abbiamo abbastanza cervello per analizzare l’andamento della politica. Quanto sta accadendo è così importante che stiamo cercando di concentrarci maggiormente sui grandi temi politici, economici e sociali.
D. Non teme che questo possa impedire lo sviluppo del programma di governo, che comprende, ad esempio, la riforma del lavoro?
R. Quanto sta accadendo è molto importante e i partiti al governo hanno talmente bisogno di riuscire che credo che nei punti di vista diversi non vi sia alcun motivo che possa far fallire l’azione del governo. Preferiamo insistere sul bilancio e sulle risorse europee da distribuire.
D. Il bilancio? Ci sarà la riforma della legge del lavoro?
R. Saranno introdotte modifiche profonde. Ne sono convinto. Primo perché il governo si è impegnato con le parti sociali, secondo perché fa parte dell’accordo di governo, e terzo perché, in una prima fase, correggere quegli aspetti della riforma del lavoro è importante per evitare la svalutazione dei salari. E, in una seconda fase, queste modifiche devono modernizzare il modello del lavoro.
D. E se la sua convinzione dovesse fallire?
R. Non prevedo altri scenari. Non so definire con esattezza le scadenze, ma il governo non ha altra via di uscita. Nessuna ministra mi ha detto chiaramente di non essere d’accordo con quanto è stato detto sulla riforma del lavoro. Ma se il governo si rifiuta di affrontare questo problema, si aprirà un conflitto con i sindacati. Se il governo dovesse fare resistenza e, a causa della crisi e delle condizioni europee, si dovesse lasciare la legge del lavoro così com’è, sarebbe una bomba ad orologeria per il dialogo sociale e sarebbe molto difficile andare avanti con gli accordi. Le cose stanno così.
D. Questo ragionamento serve ai datori di lavoro?
R. Proponiamo di ripristinare l’autoregolamentazione dei contratti, che le aziende non possano diminuire i salari con i contratti di settore perché lo chiede la legge e, in ogni caso, perché lo chiedono gli stessi contratti collettivi. Chiediamo che l’attività (di proroga automatica degli accordi fino a quando non saranno rinnovati) non scompaia, a meno che non sia concordato un accordo diverso. I datori di lavoro e le aziende moderne non dovrebbero essere contrari a questa richiesta, a meno che non intendano competere in una situazione di dumping salariale? Inoltre, chiediamo che sia fatta una riforma profonda, che dia stabilità all’occupazione riducendo le assunzioni temporanee e limitando e scoraggiando i licenziamenti. In cambio, creeremo una flessibilità interna concordata nell’azienda in modo che il licenziamento sia l’ultima opzione. Facciamo quanto è necessario fare in questa crisi.
D. Fino a quando durerà il sistema Erte?
R. Finché durerà la crisi innescata dalla pandemia.
D. Prima diceva che bisogna evitare che i salari si svalutino. E la moderazione salariale?
R. I salari sono contenuti rispetto a quanto è stato negoziato prima della pandemia. Ma ricorrerei ad una lente di ingrandimento per affrontare questo problema. Nei settori in cui ci sarà una ripresa dell’attività, un surplus, chiederemo un aumento dei salari. Ci saranno altri settori che, al contrario, saranno colpiti per un certo periodo dal calo dei consumi. E poi, trovandoci quasi in deflazione, c’è un margine, anche se non si rispettano i parametri del contratto quadro della contrattazione collettiva. I salari previsti dagli accordi del 2020 aumenteranno di circa l’1,5%, meno del 2% concordato.
D. Il salario minimo dovrà aumentare?
R. Si potrebbe adeguare l’andamento dell’aumento alla situazione attuale, ma non ritengo che debba essere congelato. Considerato quanto è accaduto quest’anno, dovremmo rivedere l’andamento senza perdere l’obiettivo ultimo (il 60% del salario medio).
D. L’aumento dello 0,9% dello stipendio dei lavoratori del settore pubblico ha dato filo da torcere?
R. Le nostre rivendicazioni non riguardano solo i salari, ma anche le risorse umane e la modernizzazione della pubblica amministrazione, che è necessaria come ha dimostrato la crisi. È fondamentale farlo. Il settore pubblico in Spagna rappresenta il 16%. In Europa, il 20%. Per poter confermare questo tipo di misura, un meccanismo analogo all’Erte sarà in grado nel futuro di analizzare le cause in funzione all’andamento dell’economia. Dipende dalla gestione delle informazioni, dai dati e dalla trasparenza dei dati aziendali. L’amministrazione pubblica deve essere dotata di meccanismi simili. La sua modernizzazione è la condizione affinché le politiche pubbliche guadagnino efficacia e legittimità nella società. Quello che si può elaborare a livello politico lo si può perdere a causa di una gestione inadeguata.
D. Teme che gli errori dell’amministrazione pubblica possano delegittimare le misure?
R. Migliorare il funzionamento della nostra amministrazione pubblica deve servire a offrire ai cittadini un servizio ottimale e a legittimare le politiche pubbliche. Non serve al cittadino comune il sistema Erte ben pensato e un reddito minimo vitale se nella realtà non dispone di risorse. I numerosi anni di tagli e di maree di petizioni senza precedenti hanno causato nell’amministrazione pubblica strozzature che sono state risolte ragionevolmente bene. Ovviamente, questo non importa alla persona il cui problema non è stato risolto.
D. È questo il momento di affrontare il cambiamento del modello produttivo, quando due settori che caratterizzano il modello spagnolo, il settore turistico e alberghiero, soffrono così tanto?
R. Non ci sarà un’altra occasione come questa. Il nostro modello produttivo ha evidenziato alcuni punti deboli: nella crisi precedente, la dipendenza dal settore dell’edilizia era eccessiva, ora, è eccessiva la dipendenza dal settore turistico. Dobbiamo cercare di aumentare la nostra influenza nell’impresa media spagnola e prevedere quali sono gli 8, 10, 12 settori trainanti…Non potevamo lontanamente pensare che sarebbero stati messi a disposizione del Paese 140.000 milioni per promuovere questo cambiamento. O si fa ora o mai più.
D. Come affronterà la riforma delle pensioni? Il patto che ha portato al 2011 è costato caro?
R. Nel 2011 la Spagna era un Paese sull’orlo della bancarotta. I sindacati hanno cercato di garantire un sistema pensionistico sostenibile che non regredisse in nessun caso verso un sistema di capitalizzazione per mettere in discussione il sistema pubblico. Ora ci troviamo in un’altra situazione. La riforma unilaterale realizzata nel 2013 ha distrutto il consenso politico e sociale, cosa che dovremo invertire. Per la prima volta in molti anni c’è un consenso politico grande su come farla. Almeno nelle linee guida generali. Proponiamo di abrogare la riforma del 2013, di creare un equilibrio finanziario per il sistema di previdenza sociale e di migliorare le modalità di ingresso del sistema per i prossimi vent’anni, quando ci sarà l’aumento della spesa pensionistica in Spagna. Queste misure rappresentano tre punti percentuali del Pil tra il 2020 e il 2048 e ciò che dobbiamo pensare è come migliorare le modalità di ingresso per coprire i costi o per contrastare la povertà dovuta alle pensioni non contributive. I cambiamenti demografici ridurranno il costo delle pensioni a partire dal 2048. Dobbiamo affrontare questo scenario.
D. Il patto di Toledo prevede alcuni aggiustamenti.
R. Si propongono incentivi e disincentivi per avvicinare l’età reale di pensionamento all’età legale di pensionamento. Abbiamo sempre parlato della necessità di un pensionamento flessibile che tenga conto di una serie di variabili. Non è lo stesso andare in pensione lasciando una cattedra universitaria o un qualsiasi altro lavoro. Non si prevede un adeguamento dei grandi parametri di riferimento delle pensioni.
Per leggere l'intervista originale: Unai Sordo: “Si se deja la reforma laboral como está, será difícil seguir con los pactos en el diálogo social”