Il peggio è stato evitato. Ma per Biden sarà dura realizzare le riforme promesse con il Senato a maggioranza repubblicana e recuperare il malessere sociale che ha gonfiato di consensi un individuo pericoloso come Trump
Il peggio è stato evitato. Il meglio è stato mancato. Non ci ritroviamo Donald Trump a governare il pianeta per i prossimi quattro anni (almeno così sembra ormai). Ma, anche se lo volesse, la nuova amministrazione non avrà i numeri per disfare tutto quello che Trump ha rivoluzionato in questo quadriennio, perché la tanto sperata onda democratica non si è realizzata.
Tutte le previsioni indicano che i repubblicani manterranno il controllo del Senato, quando saranno ultimate a gennaio le due elezioni speciali in Georgia che richiedono un secondo turno. In questo caso, la strada per Joe Biden sarà in salita: persino per nominare il proprio gabinetto dovrà trovare un compromesso con i repubblicani, visto che i ministri (segretari di stato) devono ricevere l’approvazione del senato. Sarà quindi sbarrato l’ingresso a esponenti della “sinistra” democratica, portando di conseguenza ad acuire lo scontro interno al partito del presidente.
Dovremmo però smettere di guardare alle elezioni statunitensi nell’ottica europea confondendo il rapporto repubblicani/democratici con la dialettica destra/sinistra (basti ricordare che a suo tempo fu un presidente repubblicano ad abolire la schiavitù praticata negli stati del sud controllati dai democratici).
Il candidato democratico ha chiesto il voto dei lavoratori, promettendo di essere "il migliore amico che abbiano mai avuto alla Casa bianca". Ora, dopo la liberazione da Trump, il nuovo presidente e la sua vice dovranno dimostrare di saper restituire quel che hanno ricevuto
Nelle elezioni presidenziali Usa la posta in gioco non è scegliere una politica di destra o di sinistra, ma decidere quale è la strategia migliore per rafforzare il predominio statunitense sul mondo. Per decenni vi era stata una sintonia bipartisan sulla necessità di esercitare il predominio attraverso la globalizzazione, il multilateralismo, strutture come il WTO su cui c’era stato il sostanziale accordo dei Bush, di Clinton e di Obama. Ma la dimensione globale del dominio è andata a scapito dei lavoratori statunitensi: negli anni ’50 si poteva dire che quel che è buono per la General Motors è buono per gli Stati uniti anche perché un metalmeccanico di Flint dipendente della GM guadagnava all’anno più di 90.000 dollari attuali, era cioè cointeressato all’impero mondiale statunitense. Ma la globalizzazione ha significato delocalizzazione, prima nelle maquilladoras in Messico, poi in Cina e ha comunque indebolito il già debole sindacato.
Lo slogan America First di Trump ha trovato perciò una eco favorevole, come segnale di una politica tesa a rendere di nuovo cointeressata la plebe statunitense all’impero del suo patriziato. Come accade ovunque, l’ascesa dell’estrema destra nasconde sempre un reale malessere sociale.
Questo spiega l’inaudita partecipazione popolare al voto di quest’anno. La percentuale dei votanti (cifra sempre difficilissima a scovare negli Usa, non si sa perché) è stata del 66,9 %, cioè la più alta da 120 anni: nel 1900 era stata del 73,2 %. Ma allora la popolazione degli Usa era di 76,2 milioni di abitanti; oggi è di 331,7 milioni. Il 73,2 % dei votanti di allora era costituito da 14 milioni di schede; oggi il 66,9 % è stato raggiunto con 159,8 milioni di voti, e questo perché nel 1900 le donne non avevano ancora il diritto di voto (che avrebbero ricevuto solo nel 1920), e vari stati ponevano ostacoli al voto dei neri, col risultato che il corpo elettorale era costituito nel 1900 da soli 19,1 milioni di votanti; mentre oggi è fatto da 238,9 milioni: nel 1900 il corpo elettorale rappresentava solo un quarto della popolazione (25,03%), oggi supera il 70%.
Perciò non solo Biden è il presidente eletto con il maggior numero di voti nella storia (75 milioni), ma anche Trump è il candidato repubblicano più votato di sempre (71 milioni di voti): gli americani avevano capito che per una volta gli era consentito dire la loro sulla direzione politica dell’impero.
Da questo punto di vista, l’elezione di Biden rappresenta un ritorno al passato, al consenso attorno alle idee del Council on Foreign Relations, fucina da cui per quasi un secolo sono usciti i responsabili della politica estera dei due partiti. Tanto più che il ticket Biden-Harris è in linea di continuità con la moderazione dei due ticket democratici precedenti, Clinton/Gore e Obama/Biden: già nel 1992 Clinton era esponente della destra, capofila di quei Blue Democrats che s’inventarono lo slogan “New Democrats” copiato poi da Tony Blair per il “New Labour”. Al Gore apparteneva alla stessa corrente. Questa volta, la vicepresidente eletta Kamala Harris ama definirsi “Top Cop” e ricorda il suo passato tosto di pubblico ministero californiano. Infine: quando hanno raccontato che Joe Biden è stato senatore del Delaware per 37 anni (dal 1972 al 2009), i giornali di mezzo mondo si sono dimenticati di notare che il Delaware è il paradiso fiscale degli Stati uniti, dove le società possono registrarsi senza dover indicare i propri amministratori e dove hanno un regime fiscale estremamente favorevole, tanto che più del 50 % delle società quotate in borsa negli Usa e più del 60% delle prime 500 corporations elencate dalla rivista Fortune hanno domicilio in questo minuscolo stato (più piccolo dell’Umbria, con meno di un milione di abitanti).
C'è voluto il grido indignato di un'ondata multicolore di americani, e l'ultimo respiro di George Floyd, per sconfiggere Donald Trump. Con i suoi falsi miti
Già questo dato mostra quanto poco possano sperare i sindacati dalla nuova amministrazione. D’altra parte proprio la collaborazione col partito democratico si è rivelata una camicia di Nesso: sono infatti decenni che, quando sono al governo, i democratici non approvano nessuna misura di sostegno ai sindacati, nessuna legge che favorisca la sindacalizzazione (estremamente difficile, ostacolata da mille impedimenti), mentre invece a ogni elezione il sindacato continua a mobilitarsi (anche io sono andato a fare porta a porta – canvassing – con loro in Ohio, Michigan e Illinois). Ma così il sindacato perde legittimità di fronte ai propri lavoratori e continua a svenarsi fino a rappresentare solo il 10,3 % dei lavoratori Usa: e anche questa cifra è troppo ottimista perché mentre nel settore pubblico la sindacalizzazione è del 33,6 %, nel settore privato è solo del 6,2 %!
Per quanto riguarda la scomoda eredità trumpiana, alcuni provvedimenti sono estremamente difficili (o impopolari) da revocare. Perciò si può escludere che le tasse sui capital gains e sulle società vengano riportate ai livelli pre-Trump. Senza una chiara maggioranza al senato, i democratici dovranno abbandonare il progetto di allargare la Corte Suprema per neutralizzare le nomine ultraconservatrici di Trump, e rimarranno perciò esposti a revoche dolorose, come un nuovo divieto dell’aborto.
In politica estera, la ratifica di Gerusalemme come capitale d’Israele e gli accordi di pace tra Israele e Stati arabi (alla faccia della questione palestinese) sono risultati irreversibili. Persino la rottura del trattato sul nucleare con l’Iran è difficile da ricucire: neanche i sudditi più docili possono accettare senza fiatare che i trattati ratificati dal loro impero vengano stracciati o restaurati a capriccio del nuovo presidente. La nuova guerra fredda con la Cina, lanciata da Trump, resterà anche se prenderà nuove forme.
Poi vi sono le promesse. Quella d’investire nell’economia verde è una delle più gettonate negli ultimi venti anni. Ma l’economia verde ha bisogno di investimenti e il permesso di sbloccare nuovi fondi dipenderà dai repubblicani: impresa impossibile. Più facile procedere per Ordini Presidenziali che riproporranno i divieti dell’era Obama contro eccessi nel fracking, trivellazioni al largo, sfruttamento dei parchi naturali.
E poi vi è la sempiterna promessa delle grandi opere in infrastrutture. Sono 30 anni (da quando mi occupo professionalmente degli Usa) che dai candidati democratici sento che negli Stati uniti ci sono almeno 3.000 ponti che stanno per crollare, la cui riparazione stimolerebbe l’impiego: la cifra mi lascia sempre interdetto perché almeno da 8 elezioni presidenziali i ponti fatiscenti sono sempre 3.000 senza mai cambiare. O non crollano più, oppure quelli riparati ammontano esattamente al numero dei nuovi che traballano. Il fatto è che i 3.000 ponti Usa ricordano molto l’autostrada Salerno Reggio Calabria. Il che consola il nostro complesso d’inefficienza e ci riporta coi piedi per terra anche quando discutiamo le sorti del pianeta.
Marco D’Eramo, giornalista e scrittore, è stato a lungo corrispondente dagli Stati Uniti per il Manifesto