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Stati Uniti
Il candidato democratico ha chiesto il voto dei lavoratori, promettendo di essere "il migliore amico che abbiano mai avuto alla Casa bianca". Ora, dopo la liberazione da Trump, il nuovo presidente e la sua vice dovranno dimostrare di saper restituire quel che hanno ricevuto
Sabato 7 novembre, dopo che le reti tv hanno sancito la vittoria di Biden, è venuto il momento del grande sospiro di sollievo. E’ facile immaginare che qualcuno, tra i tanti che festeggiavano nelle strade, avrà riassunto gli eventi degli ultimi mesi scrivendo sul suo cartello: I can breathe, posso respirare. Finalmente. La sconfitta di Trump non è l’uscita dal “trumpismo”, com’è ovvio. Quello è il lavoro per il futuro prossimo, possibile soltanto se si prolungheranno l’attivismo e la spinta sociale-politica di tutti i mesi passati. Questo intendeva Kamala Harris sabato sera a Wilmington, parlando alla folla prima di Joe Biden. Citando l’appena scomparso John Lewis, uno dei protagonisti storici del movimento per i diritti civili, Harris ha detto che “la democrazia non è uno stato, è un atto”: non è cosa acquisita e fissata una volta per tutte; va costruita e difesa con l’azione, con “lotta” e “sacrifici”. Contro Trump, dunque; ma non solo, in realtà.
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La percezione che queste elezioni fossero un momento estremamente delicato è testimoniata dall’innalzamento abnorme della partecipazione popolare al voto, la più alta negli ultimi 120 anni. Hanno votato quasi 160 milioni di persone, il 67 per cento degli aventi diritto. Biden e Trump sono il vincitore e lo sconfitto che hanno ricevuto più voti nella storia statunitense. La partecipazione è stata alta nonostante la pandemia, hanno scritto molti. Ma forse lo è stata a.causa della pandemia: tanti hanno votato per affermare, con Trump, che il virus non è pericoloso; altri e più numerosi, con Biden, per denunciare l’inettitudine politica dell’amministrazione Trump nell’affrontarne sia la pericolosità per la salute individuale, sia i disastrosi effetti economici per le fasce basse della popolazione. Poi, agli almeno sei milioni di voti del vantaggio di Biden sul piano nazionale, hanno contribuito tanti altri ancora - in parte indipendenti, in parte repubblicani e in parte la maggioranza dei giovani al primo voto – stufi della demagogia sboccata e arrogante e dei comportamenti classisti, razzisti e maschilisti del Presidente.
E’ stato un “voto disgiunto”. Infatti, molti elettori che hanno votato per togliere di mezzo Trump, hanno continuato a votare per i repubblicani nelle elezioni per il Congresso e per le legislature dei singoli stati. Per cui il voto nel suo complesso conferma quello che le analisi sociali dicevano anche prima: gli Stati Uniti sono divisi in due, attraversati da una frattura profonda, e la parte conservatrice e reazionaria del paese non ha subito una battuta d’arresto. I repubblicani hanno conservato, per ora, la maggioranza nel Senato. Ma ad avere vinto sono Biden e Kamala Harris, che saranno il più vecchio presidente eletto (e il secondo cattolico) e la prima donna – donna e non-bianca – vicepresidente.
Le prime analisi della geografia del voto e i primi sondaggi postelettorali danno un’idea di come sono andate le cose. Anzitutto, i due vincitori hanno conservato la stragrande maggioranza dei suffragi dei lavoratori, ed elettori, afroamericani, ispanici e asiatici. Il voto di tutti loro ha sostanzialmente ripetuto l’andamento di quattro anni fa, con le donne che confermano di essere più progressiste dei loro uomini (o perlomeno meno sensibili al richiamo machista di Trump). Solo nel caso degli ispanici ci sono state variabili locali. Una, ben nota, riguarda i cubani e venezuelani della Florida, come sempre e un po’ più di sempre schierati a favore di chiunque sia per la linea dura nei confronti di Cuba e Venezuela. L’altra, invece, viene dalle aree del Texas più vicine al confine con il Messico, dove una parte dei messico-americani di più antico insediamento, hanno votato per Trump, cioè per chiudere il confine ai potenziali nuovi arrivi. Anche questa è una dinamica nota: chi ormai ha messo il sedere al caldo, come si dice, non vuole che arrivino i suoi fratelli poveracci. E’ stato ed è così in tutte le grandi migrazioni.
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I democratici hanno vinto in tutti gli stati in cui era previsto che vincessero e nelle città, roccaforti democratiche anche negli stati in cui è ancora forte la società rurale, repubblicana. Ma alcune loro vittorie hanno un valore particolare. Biden e Harris hanno vinto in Georgia e in Arizona, stati in cui i repubblicani erano abituati a prevalere. Hanno vinto in Nevada, grazie alla forza che i lavoratori ispanici e neri hanno dato alle loro unions nell’area di Las Vegas, ormai una delle più sindacalizzate del paese. Ma il risultato determinante e più significativo, anche sul piano simbolico, è stata la vittoria in quei tre stati – Pennsylvania, Michigan, Wisconsin – in cui Hillary Clinton era stata sconfitta nel 2016. La vittoria di Biden è stata di misura, così come lo era stata la sconfitta allora.
Sono tre stati per metà rurali, ma soprattutto sono gli stati dell’antica iron belt, la fascia del ferro, diventata rust belt, fascia della ruggine, dove la grande industria meccanica e siderurgica aveva creato le maggiori comunità operaie. Lo smantellamento degli impianti produttivi ha distrutto quelle comunità, le organizzazioni sindacali e il voto operaio. Le popolazioni delle città “operaie” si sono dimezzate e impoverite. Rabbia e risentimenti avevano contribuito a far vincere Trump nel 2016. Ora nella maturata delusione nei suoi confronti, quel tanto di voto operaio che resta è bastato per ridare la supremazia ai democratici.
Rivolgendosi a un’assemblea di iscritti sindacali della Pennsylvania, in occasione dell’ultimo Labor Day, Biden ha detto: “Avrete in me il miglior amico del lavoro che abbia mai abitato la Casa Bianca”. Ha chiesto il voto dei lavoratori e lo ha avuto; gli hanno dato credito le sue origini di classe e almeno una parte del suo percorso di politico. Da ora in poi si vedrà. La domanda di giustizia sociale, di innalzamento dei minimi salariali, di occupazione, di protezione del lavoro e delle organizzazioni operaie è forte. Tutto quello che Trump ha negato. Nei mesi scorsi, le mobilitazioni sociali – inclusa la sollevazione seguita alle rivolte afroamericane innescate dall’omicidio poliziesco di George Floyd il 25 maggio – hanno “giocato” a favore di Biden e Harris. Ora starà a loro e al loro partito ricambiare quello che la mobilitazione sociale ed elettorale gli ha dato.
Bruno Cartosio insegna Storia dell'America del Nord