Pochissime aziende tracciano la produzione dei loro capi e controllano le condizioni dei lavoratori. I grandi marchi sono bloccati nel modello economico del secolo scorso
«Nel 2013, anno zero del risveglio etico nel settore della moda, assolutamente tutti - marchi, Stati, consumatori - sono venuti a conoscenza delle condizioni lugubri e pericolose nelle fabbriche che abbigliano le nostre vetrine. L'attuale emergenza sanitaria sta mettendo a nudo le cuciture di un cambiamento insufficiente». (Roberto Marín).
Nel febbraio 2019 la multinazionale spagnola della moda Inditex, usando uno slogan promettente, ha lanciato sul mercato una nuova felpa. La parola "R-E-S-P-E-C-T" è stampata a lettere maiuscole su uno sfondo nero: ispirata alla famosa canzone di Aretha Franklin, probabilmente un ammiccamento al femminismo, il marchio l’ha adottata come parola d'ordine per la sua nuova linea di moda "etica". La nuova svolta etica del colosso tessile è stata così celebrata, improvvisa e radicale che una Ong svizzera per i diritti umani ha deciso di indagare. Public Eye ha preso diverse delle felpe in questione e ha iniziato a rintracciare la catena di fornitura, fino a quando non è arrivata a un paio di remote fabbriche a Smirne, in Turchia. Quello che ha trovato laggiù aveva poco a che fare con il "rispetto": salari indecenti, orari di lavoro eccessivamente lunghi, contratti precari. L'indagine ha rivelato che Inditex guadagnava il doppio da ognuna di queste felpe "etiche" rispetto a tutte le persone che le confezionavano. Un indumento venduto come simbolo del femminismoera ancora una volta il prodotto dello sfruttamento di decine di donne.
Ormai è di dominio pubblico. Dal 2013, anno zero del risveglio etico nel settore dell'abbigliamento, assolutamente tutti - marche, Stati, consumatori - sono venuti a conoscenza delle condizioni lugubri e pericolose nelle fabbriche che 'abbigliano' le nostre vetrine. Solo dopo il crollo di un edificio in Bangladesh, quando 1.134 persone persero la vita, le multinazionali della moda hanno iniziato ad assumersi qualche responsabilità. Il primo passo è stato la firma di un accordo sulla sicurezza degli edifici e degli incendi in Bangladesh, volto a prevenire ulteriori tragedie. Diversi marchi si sono poi impegnati a essere più trasparenti e vigili, a fare dell'etica un loro punto cruciale.
Sono trascorsi sette anni e l'hype del marketing ha soffocato le buone intenzioni. Mentre i grandi marchi presentano le loro nuove collezioni "consapevoli e sostenibili", continuano a fare pressione sui fornitori per abbassare i prezzi, e spingono verso il basso i salari. "Ci sono stati miglioramenti nell'area della sicurezza, ma in altri settori, come i salari o i diritti sindacali, le cose sono proprio le stesse o anche peggio", dice la coordinatrice della Clean Clothes Campaign, Eva Kreisler. Come denuncia l'ultimo rapporto di questo network internazionale, nessuno dei principali marchi di moda del mondo è in grado di dire se le persone che confezionano abiti per loro guadagnano uno stipendio decente.
Il livello di impegno è così debole da essere crollato al primo ostacolo, come si è visto durante la crisi sanitaria da COVID-19. Non appena è esplosa la pandemia, le multinazionali hanno iniziato ad annullare gli ordini, pagando meno di quanto concordato o non pagando nulla, lasciando migliaia di lavoratori senza stipendio o senza lavoro in paesi come la Cambogia, il Vietnam e il Bangladesh. In Myanmar, e in altri paesi, la crisi è stata usata come scusa per espellere i lavoratori sindacalizzati. “La chiusura delle fabbriche in questi luoghi con salari miserabili ha lasciato migliaia di persone per strada senza un soldo. Molti hanno dovuto chiedere prestiti, vendere terreni per pagare i debiti. Molti non hanno abbastanza da mangiare", denuncia Kreisler.
Nei paesi vocati alle manifatture la pandemia lascia macerie. Bangladesh: le multinazionali annullano ordini per 953 milioni di capi già pronti. Le fabbriche tessili chiudono e non pagano gli stipendi. Un milione di persone senza lavoro né rete sociale
Di fronte alla forte pressione internazionale, alcuni marchi hanno promesso di pagare ciò che dovevano, ma altri - il 40 per cento secondo il Business and Human Rights Research Centre - hanno fatto finta di nulla. L'emergenza sanitaria ha messo a nudo le cuciture di cambiamenti ingiusti nel settore, e ha dimostrato ancora una volta che il rispetto dei diritti umani si basa su qualcosa di più di un buon logo pubblicitario.
La buona volontà non è sufficiente Non eravamo "moralmente preparati" alla globalizzazione, ha detto la ricercatrice Ángela García Alaminos, specializzata in sostenibilità sociale e lavoro dignitoso, in un articolo per The Conversation. Ha passato anni ad analizzare le lunghe e complesse catene di fornitura globali che spesso si estendono in diversi paesi in via di sviluppo, saltando da un subappaltatore all'altro, perdendosi in sweatshop o persino in case private dove non c'è controllo o monitoraggio e dove esiste ancora la schiavitù. "È vero che il numero di infortuni mortali e non mortali è diminuito nel tempo. Ma certe condizioni violente di lavoro forzato sono peggiorate, e si sono aggravate nel corso degli anni di recessione delle nostre economie", spiega.
Le linee guida stabilite dalle Nazioni Unite sono chiare: le multinazionali hanno il dovere di prevenire e porre rimedio a questi abusi. Il problema è che questo "dovere" è sempre stato su base volontaria. "Lavoro con le imprese da 20 anni ed è vero che l'interesse per l'impatto sociale della loro attività è cresciuto, ma la maggioranza rimane indifferente", ammette María Prandi, consulente in materia di affari e diritti umani. La buona volontà è fallita. Un recente studio del British Institute of International and Comparative Law ha dimostrato che solo un'impresa europea su tre si è finora interessata alle condizioni di lavoro di chi produce. È alla luce di ciò che l'Onu sta lavorando dal 2014 a un trattato vincolante di due diligence, uno strumento che per la prima volta renderà le aziende legalmente responsabili e le obbligherà a monitorare da vicino le loro catene di fornitura. La prima bozza è stata redatta nel 2018 e da allora i negoziati sono in corso. Il prossimo incontro è previsto per ottobre. "I tentativi di stabilire accordi di questo tipo in passato sono stati molti, e sono tutti falliti a causa dell'influenza esercitata dai governi e dalle lobby", spiega Prandi. "Il trattato deve ancora essere approvato da un numero minimo di paesi, quindi il processo potrebbe protrarsi ancora più a lungo".
Foto: Remo Casilli Sintesi
Nel frattempo l'Unione Europea ha anche annunciato che adotterà una propria iniziativa legislativa sulla due diligence nel 2021, seguendo l'esempio di paesi all’avanguardia come la Francia. Basterà a porre fine alle impunità una volta per tutte? I sindacati hanno i loro dubbi. "Tutte le imprese sostengono di avere processi di due diligence, ma nessuno fornisce prove solide. Hanno messo in piedi meccanismi ingombranti, burocratici, bilanci pieni di parole", afferma José Carlos González, responsabile della responsabilità sociale d'impresa per la confederazione spagnola dei lavoratori CCOO. "Non vogliamo più dichiarazioni o codici di condotta, quello che vogliamo sono dati concreti e comparabili, vogliamo conoscere le cifre reali della forza lavoro".
Sostenibile non è sinonimo di equità
Il 2019 ha segnato una svolta nella consapevolezza globale sulla sfida climatica e ha finalmente coinvolto l'industria della moda, il secondo settore più inquinante dopo l'aviazione. Sono stati gli stessi consumatori a chiedere ai loro marchi materiali più rispettosi dell'ambiente e processi meno inquinanti, ma il vero cambiamento deve ancora arrivare. Il fatto che i capi siano più "sostenibili" non li rende necessariamente più "etici" o "giusti".
"I consumatori devono capire che quando qualcosa viene etichettato come 'eco-friendly' o 'consapevole', di solito si riferisce solo all'origine delle materie prime, non al fattore umano", spiega Ignasi Eiriz, fondatore di Ethical Time, una piattaforma dedicata alla selezione e alla verifica dei marchi veramente responsabili. Quest'anno hanno creato il loro marchio "Real Sustainable Fashion". "I criteri che consideriamo sono soprattutto i salari, che devono essere dignitosi, così come gli standard di sicurezza nelle fabbriche, le condizioni igienico-sanitarie, la libertà di formare o aderire ai sindacati e l'uguaglianza. Controlliamo i fornitori di ogni marchio, e quali certificati hanno. Chiediamo una trasparenza totale", spiega. Ed è per questo che lavorano solo con piccole aziende di moda, perché raccogliere tutte quelle informazioni dalle grandi è molto più difficile.
Le Ong e i sindacati da tempo invitano le multinazionali a riconoscere pubblicamente l'esatta ubicazione delle fabbriche che producono i loro capi di abbigliamento - Made in Bangladesh non è sufficiente - ma dovrebbero essere pubblicati anche dati concreti sulle condizioni di lavoro. La Clean Clothes Campaign ha raccolto oltre 70.000 firme dal 2016 per chiedere proprio questo: trasparenza. "Ci sono aziende che hanno aperto un po' di più le loro catene di fornitura come risultato della campagna, ma la maggior parte dei grandi marchi non rende ancora pubblica la lista dei fornitori", dice Kreisler. Eppure si tratta di un’informazione è fondamentale, prima di tutto per i lavoratori e i sindacati stessi, che raramente sanno per quale marca producono e quindi non sanno a chi rivolgersi se vengono commessi abusi; ma è importante anche per i consumatori, in modo che possano distinguere tra la vera moda etica e il marketing puro e semplice. Come sottolinea la ricercatrice Ángela García Alaminos, "le persone sono sempre più consapevoli della necessità di un cambiamento, ma non hanno ancora informazioni sufficienti".
Dopo l'esplosione della crisi, molte associazioni hanno iniziato a monitorare globalmente le griffe rispetto ai fornitori e agli ordini. Abiti Puliti ha chiesto ai gruppi italiani se stanno tutelando le operaie dei Paesi produttori. Le prime risposte sono significative
Gema Gómez, stilista e formatrice di moda sostenibile, ammette che "ci sono ancora pochissime aziende, di solito piccole, che tracciano davvero il percorso dei loro capi, sia all'indietro che in avanti", il che significa fornire informazioni trasparenti su come sono prodotti, ma anche su cosa fanno dei rifiuti in seguito. Alcune aziende, per lo più giovani, di dimensioni più piccole ma più impegnate, hanno già "la sostenibilità nel loro Dna" e utilizzano la tecnologia - come i codici QR - per consentire a tutti gli acquirenti di risalire all'origine dei loro prodotti con il cellulare. "I grandi marchi sono bloccati nel modello economico del secolo scorso e quel modello è inutile perché non è etico", sostiene Gómez. "La sostenibilità può essere sostenibile solo se il peso dei grandi marchi viene ridistribuito tra tutti i piccoli".
Come nel caso della tragedia del 2013 in Bangladesh, la pandemia del 2020 ha scosso ancora una volta le fondamenta dell'industria della moda. Potrebbe essere un'opportunità, come dicono le Nazioni Unite, per ricominciare da capo e ricostruire filiere più eque e stabili o, almeno, come sottolinea Gómez, "per accelerare i cambiamenti già in atto".