Colletiva logo CGIL logo
Colletiva logo CGIL logo

Cina 

Operai senza maschera e senza lavoro

Foto: China Labour Bullettin
Davide Orecchio
  • a
  • a
  • a

Nella prima fase della pandemia produzione e prezzi delle mascherine sono esplosi, ma adesso le fabbriche hanno milioni di pezzi invenduti e chiudono, lasciando i lavoratori sul lastrico

Stanno fallendo una dopo l’altra, le fabbriche cinesi di mascherine. Avevano aumentato (o convertito) la produzione dei dispositivi nei mesi più aggressivi della pandemia Covid-19, ma adesso che l’emergenza sanitaria si è in qualche modo normalizzata quei milioni di Dpi prodotti dagli stabilimenti non incontrano più la domanda e il mercato di pochi mesi fa. Prezzi e richieste sono crollati. I calcoli d’impresa si sono rivelati un azzardo. Le fabbriche hanno chiuso. Gli operai si sono ritrovati da un giorno all’altro senza lavoro. Sono esplosi molti focolai non Covid, ma di contestazione: il China Labour Bullettin (Clb) ne ha individuati nella sua mappa almeno nove dall’inizio di maggio: proteste operaie scatenate in diversi siti produttivi cinesi. 

Quando si parla di mondo del lavoro cinese, il Clb è una delle fonti più autorevoli per ricavare informazioni che altrimenti, molto banalmente, non passerebbero. L’organizzazione indipendente di base a Hong Kong ha ricostruito tappe e cronistoria di un collasso industriale emblematico di questi tempi. Il primo nome che emerge è quello del Gruppo Shengguang a Pingdingshan, Henan: lo scorso 17 giugno - informa il Clb - improvvisamente ha chiuso, lasciando i lavoratori alla deriva: “Cinque giorni dopo anche un'altra fabbrica di Shengguang, nella vicina Xinyang, ha chiuso, e il manager è scomparso. I dipendenti di entrambe le fabbriche si sono mobilitati per chiedere il pagamento dei salari arretrati”, inutilmente. Inoltre: quattro delle nove proteste rilevate dal Clb sono scoppiate nello Jiangsu, un'importante provincia di produzione a nord di Shangai.

Negli stabilimenti del Gruppo Shengguang i salari dei quali gli operai sono stati privati erano “molto bassi”. Il Clb calcola che per produrre 3.000 maschere modello N95 al mese, un operaio riceveva uno stipendio base di 2.800 yuan (353 euro). La commissione per il turno diurno era di circa 0,02 yuan a pezzo, e saliva a 0,03 yuan nell’orario notturno. I lavoratori che producevano maschere monouso non avevano nemmeno uno stipendio base ed erano pagati a forfait. Con questi stipendi, se vengono meno, una condizione di mera sussistenza deraglia rapidamente nella miseria. Il Clb denuncia anche l’immobilismo del sindacato ufficiale cinese. I funzionari locali di Xinyang, contattati dagli attivisti del centro, hanno risposto che “stavano ancora studiando la situazione”. Fuori intanto la protesta cresceva. A Lianshui, il 21 maggio scorso, durante un sit-in di protesta degli operai è intervenuta la polizia.

In Cina, nella prima fase della pandemia da Covid-19, la produzione giornaliera di maschere modello N95 è aumentata dalle 130 mila di inizio febbraio a circa 5,86 milioni di pezzi alla fine di aprile, e “la produzione di maschere non N95 è passata da cinque milioni al giorno a 200 milioni”. Nella prima metà del 2020 sono state registrate nel Paese oltre 76.000 nuove fabbriche di mascherine. Ma quando la pandemia si è attenuata, la capacità produttiva si è dimostrata eccessiva ed erroneamente calcolata. Il prezzo unitario delle maschere è crollato e gli stabilimenti hanno accumulato scorte che non riuscivano a smaltire.

“Inoltre - ricorda il Clb - molte linee di produzione riattrezzate in fretta e furia hanno prodotto maschere scadenti che sono state successivamente restituite al produttore”. Non è mancato il ruolo della politica: stando alla denuncia del Clb, “nel caso delle fabbriche di Shengguang, sia i governi locali che il ministero dell'Industria e dell'Informazione di Pechino hanno aiutato l’impresa privata ad aumentare la produzione da 300 mila maschere al giorno a circa sei milioni al giorno”. E “il numero di turni giornalieri è aumentato da uno a quattro”.

Si direbbe: un clamoroso e sorprendente errore di politica industriale, nel regno della pianificazione. Ma gli sbagli sono anche individuali. In un’intervista a Sixth Tone, un imprenditore cinese ha ammesso di avere investito a febbraio quattro milioni di yuan (circa mezzo milione di euro) per convertire la sua fabbrica di imballaggi di plastica in una linea di produzione di mascherine facciali. Sembrava un’opportunità da cogliere al volo. Molte imprese erano in lockdown e la richiesta di Dpi era impressionante. Ma, ora che il virus è sotto controllo, i prezzi delle mascherine sono scesi da 1 a 0,2 yuan per pezzo. Nel suo magazzino l’imprenditore ha ancora due milioni di mascherine invendute, la produzione è sospesa e nessuno lo aiuta a ricollocare i macchinari ormai inutili. “Mi sento ingannato - dice. Le macchine sono di scarsa qualità. Nessuno vuole più comprarle”. Ma chissà quanto ha guadagnato in questi mesi. Certamente non 353 euro al mese, come gli operai che hanno perso il lavoro.