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Londra

Pil a picco, e la Brexit fa più paura

Foto: Photoshot Sintesi
D. O.
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Gli immigrati, che hanno tenuto in piedi il paese durante la pandemia, rischiano di essere colpiti per primi 

Stretta nella morsa tra la crisi economica dovuta al coronavirus e la Brexit, la Gran Bretagna che lavora è preoccupata. Ad aprile il Pil è crollato del 20,4%. Un calo previsto e temuto, per la quarantena, eppure impressionante. Come raccontiamo qui, disoccupati e senza lavoro, soprattutto tra i giovani e i precari, aumentano. E il treno della Brexit non si ferma. Nel suo dossier su coronavirus e mondo del lavoro, il Centre for Labour and Social Studies (Class), sintetizza la situazione con queste parole:

“Nel bel mezzo di una pandemia sanitaria globale e della conseguente recessione economica, è facile dimenticare l'altro crocevia che ci troviamo ad affrontare: Brexit. Le nostre relazioni con il resto dell'Europa e con il resto del mondo sono in gioco nei negoziati in corso. Mentre le nostre attenzioni sono altrove, ci troviamo di fronte a una serie di importanti decisioni politiche che definiranno il nostro posto nel mondo. Questi accordi lasceranno il segno in quasi tutti gli aspetti della nostra esistenza economica, sociale e politica. Detterà le condizioni di lavoro e di consumo e persino i diritti umani fondamentali; sulle nostre famiglie e sul tenore di vita; su cosa, come o anche se continuiamo a produrre e a consumare; sull'ambiente; sul nostro sistema di istruzione superiore. Ci troviamo in un momento critico, poiché le nostre disposizioni transitorie scadono alla fine dell'anno e il termine per la richiesta di una proroga è il 30 giugno di quest'anno”.


Ma la proroga non è stata chiesta. Lo scorso 15 giugno lo ha confermato il primo ministro inglese, Boris Johnson, durante una videoconferenza con Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea e David Sassoli, presidente del Parlamento europeo. Una nota del Parlamento europeo ha poi messo nero su bianco la decisione del Regno Unito di non chiedere alcuna proroga del periodo di transizione, destinato a concludersi il 31 dicembre 2020. I negoziati proseguono, guidati da David Frost per i britannici e Michel Barnier per la Ue, il quale ha detto che bisogna “prepararsi a ogni scenario”. Ossia tanto a un accordo, quanto a un “no deal”.

Come ricordano Faiza Shaheen e Raquel Jesse, le ricercatrici e autrici del rapporto Class, “l'area più sensibile è la prossima politica dell'immigrazione, poiché la vita e il futuro di molti lavoratori e famiglie sono in bilico”. Eppure, se la Gran Bretagna in questi mesi di pandemia ha “tenuto”, lo deve proprio ai quei lavoratori migranti e spesso essenziali che sarebbero le prime vittime della Brexit. “La crisi del Covid-19 - spiegano le ricercatrici - ha ingigantito il contributo vitale dei lavoratori migranti ai servizi pubblici del Regno Unito e alla nostra economia in un modo che in precedenza era stato ignorato e persino sminuito”. Col sistema di immigrazione a punti, che penalizzerebbe i lavoratori stranieri e a basso salario, cosa accadrebbe? “Settori vitali come il Servizio sanitario nazionale, l'assistenza domiciliare, l'agricoltura e la trasformazione dei prodotti alimentari possono continuare ad operare solo grazie ai lavoratori europei ed extraeuropei a basso salario”, si legge nel dossier Class.

Ma tutto il mondo del lavoro sarebbe vittima delle conseguenze della Brexit, ossia di una gigantesca ristrutturazione dei rapporti commerciali e della produzione industriale. I sindacati britannici temono apertamente che il governo conservatore acceleri con la deregolamentazione. “Potrebbero rendere il lavoro ancora più precario - dichiara nel dossier Class un sindacalista di Unite - e aumentare la produttività mettendo ancora più pressione sulla forza lavoro. Nel settore manifatturiero, ad esempio, il ricorso ad agenzie esterne è già adesso più consistente che in passato”. Una tendenza che, dopo il 31 dicembre 2020, potrebbe aumentare.

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