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Tessile

Grandi marchi pochi diritti

Foto: Marcel Crozet / ILO
Davide Orecchio
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Dopo l'esplosione della crisi, molte associazioni hanno iniziato a monitorare globalmente le griffe rispetto ai fornitori e agli ordini. Abiti Puliti ha chiesto ai gruppi italiani se stanno tutelando le operaie dei Paesi produttori. Le prime risposte sono significative

No, la tempesta che ha travolto il mondo del tessile non è finita. Innescata globalmente dal Covid-19 nell’intera filiera, dall’industria al commercio, adesso si sta trasformando in qualcosa di simile e diverso, forse di strutturale, e per niente buono per milioni di operaie e operai che tra Asia, Sud Est asiatico e America latina producono i capi di abbigliamento e le calzature destinati soprattutto ai mercati nordamericani ed europei. Uno dei focolai - sociale, non virale - resta il Bangladesh. Qui, come riporta il Live-Blog della Clean Clothes Campaign, le imprese del settore (riunite nella Bgmea) denunciano un crollo del 55% per il lavoro nelle fabbriche di abbigliamento, e mettono nel conto nuovi licenziamenti e tagli a partire da giugno. In realtà hanno già cominciato: secondo i sindacati del settore, 539 fabbriche aderenti alla stessa Bgmea non avrebbero pagato gli stipendi di aprile. Stando ai dati del governo, al 31 maggio in 60 fabbriche sono stati licenziati oltre 17mila lavoratori. Altri casi drammatici sono stati denunciati in India e Pakistan.

È il presente. Sarà anche il futuro? Intere economie eradicate dalla crisi causata dal virus, o dalla crisi usata come alibi per ristrutturare. Ordini attuali e futuri disdettati. Fabbriche chiuse e che forse non riapriranno. Posti di lavoro e dunque vite umane a rischio: salario, sussistenza, penuria di cibo, sottoalimentazione. Da mesi, dall’inizio della pandemia, sindacati globali e Ong hanno sgranato lo sguardo dei loro osservatori, convocando i grandi marchi e distributori a rendere conto. L’hanno fatto negli Stati Uniti gli attivisti del Worker Rights Consortium, aprendo un tracker che monitora il comportamento di vari brand quanto a pagamento degli ordini, dovuta diligenza, ritardi e cancellazioni nei confronti dei fornitori. Il risultato è una lavagna divisa tra buoni e cattivi. A sinistra le marche che hanno promesso di rispettare gli impegni (tra le altre, Adidas e Nike). A destra quelle che non l’hanno (ancora) fatto, e spiccano i nomi di Gap, Levi Strauss & Co. e C&A.

Un meccanismo simile l’ha avviato la già citata Clean Clothes Campaign. Anche da noi ci si è mossi. Abiti Puliti, la sezione italiana della campagna, ha elaborato una lista di domande “per capire come le imprese stanno gestendo i rapporti con i fornitori per mitigare l’impatto della crisi sui lavoratori e le lavoratrici all’altro capo della filiera”. Avete annullato gli ordini che sono già stati consegnati o preparati? Avete chiesto sconti su ordini già consegnati o preparati? Avete annullato gli ordini futuri? E molte altre questioni, sempre più dettagliate. Le imprese italiane contattate sono tra le più importanti del settore: Armani, Benetton, Calzedonia, Cavalli, Diesel, Ferragamo, Geox, Gucci, Miroglio, Moncler, OVS, Prada, Robe di Kappa, Salewa, Valentino, Versace, Zegna.

Tra le priorità dell’associazione italiana non ci sono solo i pagamenti degli ordini e degli stipendi, ma anche la tutela della salute e sicurezza di quanti hanno continuato o hanno ripreso a lavorare nelle fabbriche, mentre il Covid-19 imperversa, e la non discriminazione sindacale o di genere in questa fase di ristrutturazione e riorganizzazione del lavoro. Nel “recupero post-pandemia - sottolinea Abiti Puliti - il settore nel suo complesso deve impegnarsi per la creazione di industrie e filiere più sostenibili e resilienti. In tale ricostruzione delle filiere, i marchi e i distributori dovrebbero assicurarsi che i fornitori paghino ai lavoratori salari e benefici sociali”.

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La situazione è drammatica, in decadimento strutturale”, spiega a Collettiva Deborah Lucchetti, coordinatrice della sezione italiana di Abiti Puliti. Dopo questa fase di raccolta dati, l’organizzazione si prepara a lanciare campagne specifiche: “Stiamo pubblicando aggiornamenti continui per tenere alta l’attenzione sul fatto che le filiere internazionali sono sottoposte a stress, e certamente ci aspettiamo un proliferare di violazioni dei diritti, violazioni che al momento sono annidate nelle pieghe della crisi da Covid-19. Ci sono milioni di lavoratori in grandissima difficoltà - prosegue Lucchetti -. Il nostro compito è uscire dalla generalizzazione ed entrare nel rapporto specifico con quei marchi che sono, dal nostro punto di vista, i responsabili principali, o comunque coloro che hanno maggiori possibilità di intervenire”.

I gruppi italiani che finora hanno risposto sono: Armani, Benetton, Gucci, Prada e Salewa. Qui l’elenco in continuo aggiornamento. Sono pochi. Ad oggi, 10 giugno, Abiti Puliti informa che non hanno risposto: Calzedonia, Cavalli, Diesel, Ferragamo, Geox, Miroglio, Moncler, Robe di Kappa e Valentino. Un silenzio rumoroso.

Le risposte non sono omogenee. Gucci ha mandato poco più di un telegramma. Salewa ha replicato punto per punto, e per esteso. Prada ha risposto in inglese e rimandando a molti link esterni. Armani e Benetton, una via di mezzo. Tutti hanno però assicurato di non aver cancellato gli ordini già fatti. Ma sul futuro emergono indicazioni diverse. Armani, ad esempio, annuncia “un ripensamento della produzione del settore” e la “necessità di ridurre la frenesia del sistema e i suoi impatti sia sociali che ambientali”. E Benetton ammette di aver cancellato il 7% dei suoi ordini futuri.

“Abbiamo sollecitato le imprese a reagire - spiega Lucchetti -. Le repliche arrivate sono molto diverse, nella modalità e nel dettaglio. Le abbiamo volute pubblicare così per dare l’idea del profilo, sul piano della comunicazione, che le aziende hanno scelto rispetto alle questioni dettagliate che avevamo posto. L’azienda che ti risponde 4 righe per 20 domande dimostra un grado di approfondimento e disponibilità diverso rispetto all’azienda che ti risponde in modo più compiuto. Ovviamente faremo un follow up per verificare coi fornitori le dichiarazioni delle imprese. È un lavoro molto difficile che mostra, di solito, la distanza siderale tra parole e fatti. Quanto a quelli che non ci hanno ancora risposto, anche questo è un indicatore interessante di trasparenza e disponibilità al confronto”.

Insieme a molte altre organizzazioni e sindacati, Abiti Puliti ha invitato le aziende a impegnarsi per la continuità salariale e lavorativa nel settore, e a farlo pubblicando una dichiarazione d’intenti a valere per il presente e per il futuro.

“Dobbiamo ragionare sulla sopravvivenza dei lavoratori - spiega Lucchetti -, visto che in molte zone non c’è cassa integrazione”. Il tema del pagamento degli ordini è ancora aperto, ma “c’è poi un problema più di medio, lungo periodo - ragiona la coordinatrice di Abiti Puliti - che riguarda una potenziale ristrutturazione del settore. Le aziende possono anche rispondere che onorano gli ordini effettuati, ma in molti, come abbiamo visto, stanno ripensando gli ordini futuri. C’è un problema di tenuta. Questo si legge tra le righe. Quantificare il problema è molto difficile, al momento. Non si capisce quanti fornitori rimarranno in piedi, quanto la domanda di un settore completamente congelato, che sta ripartendo, potrà tornare ai livelli pre-crisi. Forse sarebbe anche poco desiderabile: la fast fashion (il lancio di più collezioni a stagione, ndr) è un sistema infernale, un modello di business che era già di per sé del tutto insostenibile. Ma a parte questo, quanti lavoratori resteranno? Questo sarà il prossimo tema. Questa è la grande incognita che ci lascia la crisi del Covid-19”.