L'articolo che segue è tratto da Idea Diffusa, l'inserto sul lavoro 4.0 realizzato da Rassegna Sindacale insieme all'Ufficio lavoro 4.0 della Cgil. Qui il pdf integrale del nuovo numero

Poche settimane fa Facebook, con un consorzio che comprende alcune delle aziende più grandi e più floride del mondo, ha annunciato la creazione di una propria moneta, Libra. Libra non è una criptovaluta “tradizionale”, come i bitcoin, ma un sistema di pagamento con un proprio mercato chiuso – Facebook e i suoi partner, appunto – e un tasso di cambio che si intende mantenere stabile attraverso l’acquisto di titoli sicuri. Se fosse accolta positivamente dai consumatori, un’innovazione come Libra andrebbe di fatto a togliere agli Stati il monopolio sul battere moneta – e quindi sulla politica monetaria – con conseguenze geopolitiche potenzialmente radicali.

O ancora, il bando su Huawei, annunciato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump in nome dell’America First e poi ritirato perché con ogni probabilità avrebbe messo in crisi il primato della tecnologia statunitense nel mondo. Una vicenda che,oltre a complicare le relazioni commerciali tra le aziende cinesi e gli stessi giganti americani, mette nuovamente in luce la debolezza dell’Europa in questo quadro: un vaso di coccio in mezzo a due vasi di ferro. Sì, perché il nostro continente è non solo completamente dipendente dalle tecnologie software americane, ma anche da quelle cinesi sul versante dell’hardware: Huawei e i produttori cinesi sono indispensabili, infatti, per costruire la rete 5G in Europa.

Lo scontro tecnologico Usa-Cina rischierebbe di condurre il vecchio continente a un maggiore isolamento, negando importanti possibilità di sviluppo che necessariamente dovrebbero passare dalla disponibilità di rete ad alta velocità. In questo quadro, la ricerca di un atlantismo forzato sarebbe fuori dalla storia, oltre che non gradito dall’altro lato dell’oceano, come sembrano dimostrare le strategie di Trump. Occorre invece rafforzare l’autonomia dell’Europa nel quadro geopolitico, attivando una relazione strategica con entrambi i vasi di ferro. Ma questo è possibile solo perseguendo una politica industriale autonoma.

Oggi l’Europa è importatrice netta di tecnologia, e se non possiamo pensare di replicare nel vecchio continente modelli di sviluppo che altrove hanno avuto fortuna, non possiamo nemmeno tirarci indietro dalla sfida dell’innovazione. Dobbiamo dirci quale manifattura vogliamo essere.Se siamo un sistema produttivo che punta sulla svalutazione del lavoro, andiamo in autoavvitamento, diventiamo un Paese contoterzista povero e ci sarà sempre un altro luogo dove il lavoro costa di meno e che ci potrà fare ulteriore concorrenza al ribasso. Così è uno scontro tra poveri, non è un’idea di Paese. Oppure possiamo puntare sulle filiere innovative. Anche perché, forse merita ricordarlo, nelle aziende più competitive, che stanno meglio, il lavoro e la contrattazione ci guadagnano in quantità e in qualità. Non è sufficiente, però,che lo facciano la Germania e la Francia separatamente.

Occorre una politica industriale europea per dire con forza che questi investimenti devono essere – per dirla alla Mazzucato – mission oriented e fatti con capitale paziente pubblico, in maniera da rispondere alle grandi sfide sociali e ambientali che abbiamo di fronte. Non solo, gli investimenti nelle grandi infrastrutture europee, tra cui rientra anche la fibra ottica, devono essere fatti al di fuori del patto di stabilità. In questo contesto l’Italia può svolgere un ruolo cruciale, ma solo se mette in campo investimenti strategici di filiera nell’energia, nella logistica e nella fibra. Siamo il pontile del Mediterraneo: connetterci con l’Europa non è solo business; è libertà, contaminazione, relazioni, multiculturalità. È un’idea di Paese, che significa anche sviluppo per il Mezzogiorno finalmente centro di una strategia di sviluppo.

Allargando lo sguardo, un tema di cui ci si dimentica sempre quando si parla di Via della Seta è l’Africa, continente che oggi ha un miliardo di abitanti e ne avrà 2,5 nel 2050. Lì la Cina ha costruito infrastrutture, portato acqua ed energia, preso le miniere di litio e di celio (con cui sono fatti i nostri smartphone). Se la Via della Seta dipende anche da quel mondo, non possiamo non vedere che l’Italia, e in particolare il nostro Sud,è l’hub naturale. Eppure la Cina ha investito nel porto del Pireo. Ecco perché i nostri scali diventano strategici: abbiamo un patrimonio che è il mare, ma dobbiamo farlo diventare potenziale di business attraverso investimenti in infrastrutture, anche interne, e strategie di politica industriale. I porti italiani non sono in competizione tra loro, ma possono perseguire una strategia di specializzazione produttiva che si muove lungo due direttrici: quella adriatica – che ci collega alla Mitteleuropa – e quella tirrenica, che guarda ai territori della Francia e del Benelux consentendo di risparmiare diversi giorni di navigazione rispetto allo scalo Rotterdam (e questo i cinesi, che hanno investito a Savona, nella piattaforma di Vado Ligure, l’hanno già capito).

Vincenzo Colla è vicesegretario generale della Cgil