Le conseguenze del cambiamento climatico sono già evidenti ora che la temperatura media globale è aumentata di 1 grado rispetto al livello preindustriale: temperature record, calotte di ghiaccio che si sciolgono, incendi, alluvioni e uragani devastanti e più frequenti, milioni di persone affette da malnutrizione a causa della siccità, costrette a scegliere tra fame e migrazioni forzate, distruzione degli ecosistemi marini con conseguenze disastrose sui sistemi alimentari di milioni di persone. L’accordo di Parigi del 2015 ratifica l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2 gradi, facendo ogni sforzo per limitarlo entro 1 grado e mezzo, ma sappiamo che gli impegni volontari assunti dai vari Stati, se fossero rispettati, porteranno a un incremento della temperatura superiore a 3 gradi. Con 2 gradi si stimano fino a 400 milioni di persone a rischio fame e 1-2 miliardi di persone che non avranno accesso adeguato all’acqua. Tra il 2030 e il 2050 si ipotizzano 250 mila decessi aggiuntivi all’anno per malnutrizione, malaria, diarrea e stress da calore. Un cambiamento che potrebbe determinare circa 140 milioni di “migranti climatici”.

Come se non bastasse, tutto questo aggraverà la povertà e le disuguaglianze, determinando quello che è stato definito un “apartheid climatico”. I Paesi in via di sviluppo, quelli con una responsabilità quasi nulla, pagheranno il 75-80% dei costi. I governi non stanno agendo, il tempo stringe e non si stanno attivando nemmeno per raggiungere gli attuali inadeguati impegni. Non solo, continuano a sovvenzionare l’industria dei combustibili fossili con 5,2 trilioni di dollari l’anno, il 6,3% del Pil mondiale. L’ultimo catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi del ministero dell’Ambiente, ad esempio, certifica che nel 2017 l’Italia ha speso 16,8 miliardi di euro per sussidi alle fonti fossili. Eppure le aziende produttrici di combustibili fossili sono le principali responsabili del cambiamento climatico, rappresentando il 70% delle emissioni prodotte dall’uomo. E non sono intenzionate a invertire le loro politiche: finché prevedono di ricavarne profitti, faranno di tutto per nascondere le loro responsabilità e negare le cause umane del cambiamento climatico.

Sappiamo che l’adozione delle misure necessarie per affrontare i cambiamenti climatici porterà inevitabilmente la perdita di posti di lavoro nei settori ad alta intensità di carbonio, ma sappiamo anche che saranno più che compensati dai nuovi lavori richiesti per limitare il riscaldamento globale. Basti citare il recente rapporto “Greening with jobs” dell’Organizzazione internazionale del lavoro, secondo cui il passaggio all’energia pulita creerebbe un aumento netto di 18 milioni di posti di lavoro attraverso le rinnovabili, la crescita dei veicoli elettrici e l’aumento dell’efficienza energetica degli edifici, e che il passaggio da un’economia lineare a un’economia circolare creerà altri 6 milioni di posti di lavoro, che si sommeranno alle ulteriori opportunità per il passaggio all’agricoltura sostenibile.

L’altro lato della medaglia ci mostra che il riscaldamento climatico si tradurrà in uno stress termico che causerà una perdita economica di 2.400 miliardi di dollari e di 80 milioni di posti di lavoro nel mondo entro il 2030, anche se si riuscisse a contenerlo entro 1 grado e mezzo. Sono i dati di un altro rapporto dell’Ilo, “Lavorare su un pianeta più caldo”, ad approfondire il tema dell’impatto del cambiamento climatico sulla produttività lavorativa. Ancora una volta emerge che le ricadute saranno ripartite in maniera diseguale tra i Paesi. Le regioni che perderanno il maggior numero di ore di lavoro saranno l’Asia del Sud e l’Africa dell’Ovest, confermando l’apartheid climatico e andando a sommarsi agli svantaggi economici già presenti: alto tasso di lavoratori poveri, occupazione vulnerabile, agricoltura di sussistenza e assenza di protezione sociale. I settori più colpiti sono l’agricoltura e le costruzioni, dove si prevede verranno perse rispettivamente il 60% e il 19% delle ore di lavoro complessive. Ma ci rimetteranno anche trasporti, turismo, beni e servizi ambientali. I governi dovrebbero cercare di sviluppare, finanziare e attuare politiche di adattamento al cambiamento climatico, per combattere i rischi di stress termico e proteggere i lavoratori, ma su questo piano sono alquanto latitanti. Il ruolo del sindacato deve dunque essere sempre più incisivo anche su questi aspetti per garantire la tutela dei diritti e la salute di tutti i lavoratori che, svolgendo la loro attività all’aperto, saranno sempre più esposti a temperature e condizioni meteorologiche estreme.

La lotta al cambiamento climatico è necessaria e urgente perché mette a rischio la sopravvivenza sul pianeta di numerosi specie, compresa quella umana. Per essere vinta comporta un cambiamento radicale dell’intero sistema economico e produttivo che deve spostarsi da un modello basato sulle fonti fossili, estrattivista, capitalista, consumistico e iniquo, verso un nuovo modello di sviluppo equo e sostenibile. Questo cambiamento radicale avrà ripercussioni positive per la quasi totalità degli abitanti del pianeta, presenti e futuri. Le uniche a essere colpite, al cuore dei loro profitti, saranno quelle poche imprese e i relativi settori finanziari che vivono delle fonti fossili (nel periodo 1988-2015 il 71% delle emissioni di gas effetto serra erano prodotte da solo 100 aziende). È evidente che la decarbonizzazione dell’economia non può essere guidata dal libero mercato. Il capitalismo, anche quando si veste di verde, ha come unico obiettivo la massimizzazione dei profitti. La crescita dei consumi è incompatibile con la limitatezza delle risorse naturali e con la necessità di un’equa ripartizione delle stesse fra tutti gli abitanti del pianeta attuali e futuri. Allo stesso tempo, però, oltre vent’anni di conferenze sul clima hanno dimostrato che nemmeno i governi hanno la volontà politica di agire per risolvere la questione climatica. E non mi riferisco qui solo al negazionista Trump o a Bolsonaro che spinge la deforestazione dell’Amazzonia. Mi riferisco a tutti i leader globali, compresi quelli che si definiscono ambiziosi come l’Italia, che non agiscono con la dovuta urgenza e radicalità. Il clima è un bene comune che garantisce in primo luogo il diritto fondamentale alla vita. La lotta al cambiamento climatico può essere vinta solo con la partecipazione. Dobbiamo rivendicare percorsi di partecipazione democratica effettiva che dia potere decisionale nella pianificazione e nelle misure di transizione con il pieno coinvolgimento di cittadini, istituzioni centrali, aziende, enti locali, lavoratori, sindacati, imprenditori, enti finanziari, centri di ricerca, associazioni della società civile e comunità.

La Cgil è impegnata su questo fronte fin dai primi anni delle conferenze Onu sul clima, ha sostenuto dal suo nascere il movimento dei Fridays For Future e da anni propone un’integrazione della tutela ambientale per lo sviluppo sostenibile in tutte le sue politiche di contrattazione confederale e di categoria. Questo però non ci deve esimere da un’attenta riflessione. Dobbiamo evitare di fare lo stesso errore che fanno i governi, ovvero dichiararsi ambiziosi senza esserlo veramente. Se chiediamo di mantenere l’incremento della temperatura entro 1 grado e mezzo e di aumentare gli impegni di riduzione delle emissioni a livello europeo, e anche in Italia, almeno al 55% al 2030, dobbiamo essere consapevoli che questi obiettivi non sono compatibili con alcune scelte strategiche, se e quando entrano in conflitto con la tutela ambientale e aggravano l’emergenza climatica anziché dare un contributo a venirne fuori. Dobbiamo essere coscienti, per esempio, che non si va nella giusta direzione se si sostituiscono tutte le centrali a carbone con centrali a gas, se si costruiscono nuove infrastrutture per l’importazione e lo stoccaggio del gas e nuove autostrade per favorire la mobilità su gomma, se si sostengono estrazioni nostrane di petrolio e gas e se si sostiene la crescita e non la ripartizione equa delle risorse limitate del pianeta. Anche per noi non c’è più tempo da perdere, l’emergenza climatica deve guidare la nostra azione perché attraversa profondamente i nostri valori fondanti, la ricerca della piena occupazione, la lotta per l’equità intra e intergenerazionale e di genere, la difesa dei diritti umani.

Simona Fabiani, area Politiche di sviluppo Cgil nazionale