A cosa serve, o dovrebbe servire il Rapporto Benessere equo e sostenibile (Bes)? A questo interrogativo ha risposto il presidente dell’Istat Gian Carlo Blanciardo introducendo la presentazione della nona edizione del Rapporto: “Permette di dare risposte puntuali e di insieme alla domanda semplice e al tempo stesso difficilissima? Come va la vita, in Italia? Soprattutto, permette di mettere in luce le aree dove si manifestano diseguaglianze e consente di individuare i gruppi più svantaggiati, indirizzando su solide evidenze la domanda di politiche mirate”.

Questo, dunque, dovrebbe essere lo scopo del Rapporto, la cui logica conseguenza dovrebbe essere politiche mirate ad aumentare il benessere dei cittadini e delle cittadine, a partire da quelli che stanno meno bene. In sostanze politiche per ridurre le diseguaglianze: tra persone, tra territori, tra generi, tra generazioni. Non pare che le leggi di bilancio e le politiche dei governi degli ultimi anni abbiano colto a pieno le indicazioni che dai precedenti Rapporti Bes sono arrivati. Confidiamo nelle prossime. Soprattutto, confidiamo che nel redigere la prossima legge di bilancio: il governo tenga conto delle indicazioni e, ad esempio, riduca le tasse sulle fasce di reddito più basse, metta in campo risorse per la sanità e l’istruzione a cominciare da quelle che servono per reclutare personale sanitario e insegnanti. Soprattutto avvii un grande piano per il lavoro dignitoso, con salari adeguati e stabili.

“In realtà l’obiettivo dei Bes – afferma Gianna Fracassi, vice segretaria generale della Cgil - è quello di cambiare la metrica delle politiche economiche e quindi anche delle manovre di bilancio in funzione di indicatori che riguardano i progressi economici, sociali e ambientali integrativi del Pil come “misura del benessere per una crescita inclusiva e sostenibile.” Questa, in sintesi, "era stato l’avanzamento che i capi di Stato e di governo nella dichiarazione di Porto del 2021 avevano indicato con l’obiettivo di una Europa 'continente della coesione sociale e della prosperità'. Il quadro che rappresenta Istat era prevedibile”.

Veniamo, allora, alle evidenze che i numeri illustrati da Linda Laura Sabbadini indicano con chiarezza. Il rischio grande che corre il Paese, purtroppo, è che la ripresa certamente avviata nel 2021 dopo l’anno orribile 2020 non solo si arresti – e i segnali ci sono tutti – ma che comunque sia “senza equità” : che le diseguaglianze, preesistenti ma che il coronavirus ha approfondito, se va bene rimangano immutate.

Cominciamo dal lavoro. Rispetto all’Europa, nel nostro Paese l’occupazione era già più bassa ma nel 2020 si è perso il 3% di occupati mentre nel resto del continente -1,9%. Non solo, la Ue-27 torna ai livelli occupazionali pre-pandemia nel secondo trimestre 2021, mentre in Italia ciò avviene nel quarto trimestre. Ma di quale occupazione si tratta? Il riallineamento dei tassi di occupazione è avvenuto a partire da un forte aumento dei lavori a tempo determinato. La quota di tempi determinati cresce rispetto al 2020 attestandosi al 12,8% del totaleCome cresce la quota del part-time involontario. Nel 2021 l’11,3% degli occupati a tempo parziale involontario, quota che arriva al 17,9% tra le donne. Insomma, ciò che aumenta davvero è la precarietà e il lavoro povero. E poi, il forte crollo degli indipendenti avvenuto nel 2020 non è recuperato nel 2021: la quota continua a calare dal 22,5% al 21,8% per 100 occupati.

Tra tutto questo sconquasso un dato positivo c’è: continuano ad aumentare gli occupati che lavorano da casa, sono triplicati dal 2019. Sono il 14,8% nel 2021 (erano il 4,8% nel 2019 e il 13,8% nel 2020).

Se il benessere del Paese lo misuriamo con il benessere delle donne, allora siamo davvero messi male. Nel 2021 le donne tra i 25 e i 49 anni sono occupate nel 73,9% dei casi se non hanno figli, mentre lo sono nel 53,9% se hanno almeno un figlio di età inferiore ai sei anni. Non solo, il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne con figli e delle donne senza figli è peggiorato di circa un punto rispetto a quello dell’anno precedente. È dal 2015 che questo indicatore peggiora. Ciò significa che quel poco di miglioramento che avviene sul mercato del lavoro femminile lascia comunque indietro le donne con figli piccoli.

Ancora, al Sud lavora solo il 35,3% delle donne con figli piccoli. I dati dicono anche che nelle coppie tra i 25 e i 44 anni, in cui entrambi i partner sono occupati, solo il 37,4% del lavoro domestico e di cura è svolto dall’uomo (30,1% al Sud). E per finire alcuni dati che non riguardano direttamente il lavoro ma, appunto, il benessere delle donne. Neanche un quinto delle posizioni di vertice negli organi decisionali (Corte costituzionale; Consiglio Superiore della magistratura; Autorità di garanzia e regolazione; Consob; Ambasciatrici) è occupato da donne. In nove anni 7 punti percentuali in più, neanche un punto all’anno: se si mantenesse questo ritmo dovremmo aspettare più di 30 anni per arrivare al 50%. Infine, la partecipazione culturale fuori casa si è ridotta ampiamente sia per gli uomini sia per le donne, ma in maniera più elevata per queste ultime (-22,5 punti percentuali rispetto al 2020, -20,5 tra gli uomini).

Diretta conseguenza del lavoro, o della mancanza di esso, è la povertà. Quella assoluta cresce nel 2020 di circa un milione di unità, è stabile nel 2021, per un totale di più di 5 milioni 500 mila individui in povertà assoluta. Mentre nel 2020 era cresciuta nel Nord del Paese, nel 2021 cresce nel Mezzogiorno dove già era più alta. Nel 2021, molto elevata la povertà dei minori di 0-17 anni (14,2%) e dei giovani di 18-34 anni (11,1%). Stabile quella degli anziani (5,3%).

Continua a crescere la percentuale di famiglie che dichiarano che la loro situazione economica è peggiorata: dal 25,8% del 2019 al 29% del 2020 al 30,6% del 2021.

Tra gli indicatori del benessere di un Paese non può che esserci la salute, messa a dura prova da due anni di pandemia. Il dato più allarmante non è solo la diminuzione dell’aspettativa di vita alla nascita passato dal 83,2 del 2019 al 82,1 del 2020 per salire un po’ nel 2021 (82,4), ma che il divario tra Nord e Sud si sia approfondito. E il rischio che il futuro le cose non vadano meglio è alto, visto che la rinuncia agli accertamenti diagnostici causa riduzione dell’offerta da parte delle strutture sanitarie è davvero troppa: si passa dal 6,3% del 2019 al 9,6% nel 2020 e all’11% nel 2021.

Ma il dato forse più preoccupante è che nel 2021 si osserva un peggioramento nelle condizioni di benessere mentale tra i ragazzi di 14-19 anni. In questa fascia d’età il punteggio rilevato (misurato su una scala in centesimi) è sceso a 66,6 per le ragazze (-4,6 punti rispetto al 2020) e a 74,1 per i ragazzi (-2,4 punti rispetto al 2020). Aumenta la percentuale di adolescenti in cattive condizioni di salute mentale, che passa dal 13,8% nel 2019 al 20,9% nel 2021.

Difficile, poi, pensare di agganciare gli altri Paesi della Ue se i tassi di istruzione rimangono quelli fotografati dal Rapporto. La partecipazione alla formazione nella primissima infanzia ha subito una battuta d’arresto nonostante il lieve aumento nella disponibilità di strutture e posti. Stabile al 28% la percentuale di bambini di 0-2 anni che frequentano l’asilo nido. Nel 2021, in Italia, il 62,7% delle persone di 25-64 anni ha almeno il diploma superiore, oltre 16 punti percentuali in meno rispetto alla media europea.

I giovani di 30-34 anni che sono in possesso di un titolo di studio terziario sono il 26,8% in Italia contro più del 41% tra i coetanei dei paesi dell’Unione europea. Nel 2019, 2020 e nel 2021, in Italia si è interrotto il costante, seppur lento, aumento della quota di laureati.  Ancora alta, sebbene in calo, la quota di giovani tra 18 e 24 anni che sono usciti prematuramente dal sistema di istruzione e formazione dopo aver conseguito soltanto il titolo di scuola secondaria di primo grado. Nel 2021 sono il 12,7% (erano il 14,2% nel 2020).  La quota di giovani di 15-29 anni che non studia né lavora (Neet) cala leggermente nel 2021 (23,1%), ma non torna al livello pre-pandemia (22,1% nel 2019).

Infine, il divario territoriale, tra Nord e Sud – solo per fare alcuni esempi - meno lavoro, più povertà, più abusivismo e meno acqua, la quota di famiglie che dichiara irregolarità del servizio idrico, nel 2021, è pari al 9,4%. Nel Nord il valore è 3,3%, nel Mezzogiorno il 18,7%.

“Il Rapporto Bes certifica che la pandemia ha accentuato i divari sociali - è il commento di Gianna Fracassi -: ha colpito in special modo giovani e donne, ha innalzato la precarietà nel lavoro. La guerra in Ucraina peggiorerà questo quadro. Per questo abbiamo considerato il Def come inadeguato alle necessità sociali del Paese. Servono politiche straordinarie per rispondere all’emergenza e misure per creare occupazione stabile e di qualità".

I dati di cui disporre per capire il nostro Paese sono davvero tanti. Il Rapporto completo conta 12 domini, (salute, istruzione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, innovazione ricerca e creatività, qualità dei servizi), 153 indicatori, 242 pagine. Ci auguriamo attenta lettura e volontà di seguire le chiare indicazioni che i numeri consegnano a chi può e dovrebbe agire.