Fisco globale
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Multinazionali, anzi apolidi

Gli Stati hanno perso il controllo sui redditi imponibili delle loro imprese più grandi. Il risultato è che non è più individuabile un unico luogo di produzione della ricchezza. Ma una soluzione per evitare l'elusione delle tasse ci sarebbe
Uno dei problemi principali dei sistemi fiscali contemporanei consiste nelle possibilità di elusione che essi consentono soprattutto ai grandi gruppi multinazionali. A causa della globalizzazione dei mercati, della diffusione delle nuove tecnologie, della riorganizzazione delle catene del valore si è creata negli ultimi decenni una situazione di concorrenza fiscale tra paesi che ha portato, da un lato ad una drastica riduzione delle aliquote dell’imposta sulle società (passata dal 40-50% degli anni 70-80 del secolo scorso al 20-30 % attuale) e, dall’altro, alla possibilità per i grandi gruppi multinazionali di abbattere il loro carico fiscale.
In altri termini gli Stati hanno perso il controllo sui redditi imponibili delle loro imprese più grandi che, spostando i profitti da una giurisdizione fiscale ad un’altra, riescono a ridurre, anche in misura drastica, le imposte da pagare allo Stato di origine, fino ad annullarle completamente. Si tratta in sostanza di organizzare la contabilità del gruppo spostando opportunamente da un’impresa all’altra costi e ricavi, in modo da far emergere contabilmente i costi, che sono detraibili, nei Paesi con aliquote delle imposte societarie più elevate, e i ricavi (tassabili) in quelli con aliquote fiscali basse, o inesistenti (paradisi fiscali).
L’operazione avviene tramite scambi e transazioni tra le società del gruppo che sono formalmente legittimi, anche se materialmente inesistenti. Vi sono Paesi specializzati nel consentire e facilitare questo tipo di transazioni fittizie, e spesso i gruppi multinazionali trasferiscono la sede giuridica, o comunque creano una loro sussidiaria, in questi Paesi. Il caso della Fca, prima della recente fusione, appare paradigmatico: sede legale in Olanda, sede fiscale in Inghilterra, quotazione a New York. In sostanza queste società tendono a diventare apolidi più che multinazionali.
In effetti negli ultimi decenni è entrato in crisi l’intero approccio tradizionale alla tassazione internazionale in vigore a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. Tutto è cambiato. Con la globalizzazione, le liberalizzazioni, la digitalizzazione, l’aumento della concorrenza, le imprese multinazionali hanno specializzato le funzioni aziendali all’interno dei gruppi, rompendo la tradizionale coincidenza tra mercato di produzione e commercializzazione dei beni. Ogni impresa del gruppo si specializza in una attività: ricerca, produzione di elementi specifici del prodotto finale, logistica, marketing, distribuzione, gestione dei brevetti, eccetera.
Non è quindi più individuabile un unico luogo di produzione della ricchezza, e le grandi multinazionali, operando sui prezzi di trasferimento all’interno del gruppo dei vari beni e servizi prodotti da ciascuna impresa, sono in grado di spostare a piacimento costi e profitti, come si è già ricordato.
Ancora più grave è il fenomeno nel caso delle multinazionali del web che svolgono, spesso da remoto, attività completamente digitali o multidimensionali, e possono operare dovunque senza la necessità di una presenza fisica in un determinato Paese, realizzando valore grazie alla domanda dei consumatori senza bisogno di promuoverla e tramite lo sviluppo dei big data. Non solo la produzione risulta apolide, ma l’origine del valore appare del tutto virtuale fino a scomparire, mentre i profitti spariscono nei paradisi fiscali.
La soluzione del problema è possibile, ma occorre superare la dimensione nazionale della tassazione e stabilire che le società multinazionali vengano considerate una unica impresa, come in realtà sono, e tenute a presentare un unico bilancio mondiale per la loro attività per poi ripartire i profitti tra i vari Paesi coinvolti in base a criteri di ripartizione che tengano conto della occupazione, delle vendite, della produzione effettivamente realizzata. Al tempo stesso i criteri contabili dovrebbero essere ragionevolmente standardizzati.
Una proposta molto simile era stata avanzata nel lontano 1997 dal Governo italiano in sede europea, ed è nota con l’acronimo Ccctb (Common consolidated corporate tax base). Questa ipotesi, pur essendo stata tradotta in due diversi momenti in proposte di direttiva, è rimasta finora a livello di progetto a causa soprattutto dei Paesi europei con caratteristiche e comportamenti da paradisi fiscali (Irlanda, Lussemburgo, Olanda, eccetera).
Nella stessa direzione si è mossa l’Ocse su incarico del G-20 pervenendo ad una proposta che forse oggi, dopo l’elezione di Biden che ha cambiato il precedente orientamento americano, potrà forse fare dei passi avanti concreti, rendendo, magari, superato il progetto Ccctb. Certo, le multinazionali, soprattutto americane, e soprattutto quelle del web, dovrebbero pagare molte più tasse, ma dopo gli esiti drammatici della pandemia, e le necessità di investimenti per la ripresa, le opinioni pubbliche dei Paesi più sviluppati non sembrano più disposte a tollerare che le grandi imprese globali, e quindi i loro azionisti, non contribuiscano adeguatamente agli oneri delle spese pubbliche di cui pure beneficiano.
Vincenzo Visco, già ministro delle Finanze, è presidente del Centro studi Nens.
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