L’evasione fiscale in Italia è un fenomeno almeno secolare, le cui radici affondano nella natura stessa del nostro sistema economico. Infatti, la presenza di molte attività economica di piccola e piccolissima dimensione, che rappresenta un vantaggio da molti punti di vista, comporta però una naturale elevata propensione media all’evasione, i cui costi tendono ad essere decrescenti al crescere della dimensione e del livello di complessità dell’organizzazione produttiva.

Le attività economiche poco organizzate, con scarso o nullo personale e magari a struttura familiare, infatti, sono in grado di gestire alti livelli di evasione con pochi rischi e senza sopportarne i costi che ne conseguono per le attività economiche di maggiore dimensione, in particolare quelli derivanti dalla perdita di controllo interno derivante dall’alterazione o dall’assenza della contabilità. Date queste premesse, è evidente che per contrastare l’evasione di massa messa in atto dalle attività economiche di piccola e piccolissima dimensione è necessario adottare un approccio basato sulle informazioni provenienti da fonti terze (le cosiddette third parties) e affidabili, in primis i conti correnti nonché le informazioni provenienti da fornitori e clienti.

Ed è questa, infatti, la direzione intrapresa in Italia con la riforma dell’anagrafe dei conti correnti e dei rapporti finanziari, nel 2011, e con l’introduzione della fatturazione elettronica, a partire dal 2017. Gli effetti di queste misure, in particolare della seconda, sono visibili e documentati (ad esempio nella Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva disponibile on-line) ma ancora insufficienti. In effetti, queste due basi dati sono ad oggi ancora fortemente sottoutilizzate per due principali ragioni.

La prima è la carenza di organico e di capacità di utilizzo di questi dati da parte dell’Agenzia delle entrate, che sta attraversando una fase di faticosa trasformazione da agenzia per la repressione ad agenzia per la prevenzione e promozione della compliance. La seconda sono gli ostacoli fino ad oggi posti dal Garante della privacy all’utilizzo a 360 gradi di questi dati. In particolare, fino ad oggi il Garante non è stato in grado di comprendere che l’approccio moderno al data-mining richiede di cercare nei dati gli indizi di evasione (cosiddetto approccio induttivo) piuttosto che fare il contrario, ovvero di avere già in mente gli indicatori del comportamento sospetto, assemblando poi i dati necessari alla sua implementazione (approccio deduttivo). Rimuovere questi vincoli strutturali, normativi e organizzativi è quindi la prima strategia per il contrasto dell’evasione delle attività economiche di piccola e piccolissima dimensione, che in Italia è quantitativamente dominante.

Per quanto riguarda, invece, il contrasto dell’evasione dei grandi gruppi e delle società più strutturate l’unica strategia che può funzionare è quella basata sulla trasparenza e sull’obbligo, da parte di questi soggetti, di rivelare alle amministrazioni finanziarie di tutto il mondo l’articolazione delle proprie sussidiarie e la distribuzione dei profitti e dei dipendenti tra di esse. Come dimostrato da recenti lavori di ricerca di Gabriel Zucman, questi pochi dati sono già sufficienti ad individuare con un buon margine di certezza i flussi sospetti.

Ulteriori informazioni potrebbero venire dall’istituzione dell’obbligo alla pubblicazione del country-by-country reporting, ovvero del resoconto finanziario delle attività svolte dai gruppi multinazionali nei vari paesi in cui operano. Una volta ottenute queste informazioni, con la collaborazione delle amministrazioni finanziarie dei diversi paesi sviluppati, e quindi con una volontà politica realmente condivisa a livello internazionale, i fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva, se non azzerati, possono certamente essere ridotti in misura significativa.

Alessandro Santoro è professore ordinario di Scienza delle Finanze all'Università Bicocca di Milano