Sul rapporto dell'Osservatorio internazionale del lavoro di Futura abbiamo chiesto un commento a Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil.

Dai dati sull'economia e la finanza emerge un quadro preoccupante rispetto alla caduta della produzione industriale e contemporaneamente una fotografia di settori in movimento (c'è anche chi ci ha guadagnato con la crisi, la farmaceutica e l'e-commerce per esempio). Che tipo di economie si stanno preparando?

E’ difficile fare previsioni economiche. C’è un elemento di incertezza legato alla diffusione della pandemia. Ieri è stato il giorno con il maggior numero di contagi nel mondo e in alcuni grandi paesi come gli Stati Uniti o il Brasile non mi sembra si sia raggiunto il picco e in un mondo globalizzato le economie sono collegate e gli effetti si ripercuotono a catena. Ma detto questo alcuni punti di fondo possiamo affermarli: direi che in prospettiva l’economia della cura sarà fondamentale. Per economia della cura intendo l’implementazione di tutti quei settori che sono collegati alla cura delle persone e aggiungo del territorio e dell’ambiente, con una filiera anche industriale molto importante. Il virus ci ha costretto ad una visione più radicale rispetto ai bisogni di base, rispondere a questi bisogni primari e alle diseguaglianze è oggi una parte rilevante delle prospettive economiche del nostro paese. In questo senso il ruolo dello stato diventa strategico, la fase neoliberista lo ha minimizzato e ne stiamo pagando le conseguenze, oggi è il momento di cambiare paradigma immaginando maggior governo anche sui processi economici e industriali in particolare che possano permettere al paese di ripartire. In secondo luogo la conoscenza sarà l’altro grande settore da valorizzare. Il “knowlwdge divide” del nostro paese rappresenta uno dei grandi punti di debolezza e uno degli elementi che alimenta nuova diseguaglianza: rispondere a questo divario significa semplicemente investire di più in ricerca, nell’università e nella scuola a partire dai più piccoli.

Dalle risposte ai sondaggi emerge una preoccupazione generale per il futuro che si trasforma in alcuni casi in vere paure per i lavoratori delle aziende in crisi. Quali scenari ci possiamo attendere dopo la pandemia?

Stiamo ripetendo da settimane che è necessario agire in fretta su due versanti: la proroga di tutti gli strumenti di sostegno al reddito e il blocco dei licenziamenti per prima cosa e contestualmente mettere in campo un sistema universale di ammortizzatori sociali per proseguire la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici. Non penso ci possiamo permettere uno scenario diverso da questo. Questa è l’emergenza. Poi nel breve periodo vale a dire la legge di bilancio bisogna mettere in campo una potenza di fuoco di investimenti pubblici, non ci sono altre scelte. E’ una crisi ben peggiore di quella del 2008, fare gli stessi errori sarebbe francamente insostenibile. Per fare ciò occorre usare tutte le risorse a nostra disposizione e usarle bene. Quelle nazionali e quelle europee. In queste ore assistiamo ad un difficile negoziato sul Recovery Fund che però ci fa comprendere che ci sono ancora alcuni paesi legati alla logica dell’assistenza e non della solidarietà. Servono aiuti a fondo perduto con condivisione del debito, risposte diverse rischiano di indebolire maggiormente alcuni paesi ( tra cui il nostro) e colpire però tutta l’economia europea.

Con gli ammortizzatori sociali e le smartworking si è cercato di porre un freno al possibile crollo generalizzato dell'occupazione, ma le aziende sembrano indirizzate sempre di più verso contratti flessibili. Un futuro di lavoro ancora più precario?

Recuperare competitività, svalutando il lavoro delle persone attraverso maggiore precarietà sarebbe una di quelle risposte sbagliate a cui accennavo poco fa. E’ una ricetta purtroppo che il nostro paese ha già messo in campo con una serie di riforme culminate nel Jobs act che non solo non hanno migliorato né l’efficienza del sistema né la sua competitività ma hanno rappresentato una concausa della situazione economica di stallo che avevamo nella fase pre-covid. L’effetto più evidente è il crollo delle ore lavorate: il quadro che emerge anche in relazione al numero degli occupati ci indica un aumento dei contratti precari e nel contempo una riduzione delle retribuzioni pro capite. Un impoverimento complessivo anche di chi il lavoro ce l’ha. La strada deve essere, al contrario, quella della stabilità del lavoro, cancellando le tante forme precarie. E aggiungo che il tema del rinnovo dei contratti di lavoro pubblici e privati che diventa fondamentale in questa fase: come leva redistributiva e come regolamentazione dei rapporti di lavoro alla luce delle tante sfide che questo momento storico ci pone: dallo smart working alla riduzione dell’orario di lavoro alla formazione. Quando affermiamo come Cgil che dobbiamo cambiare il nostro modello di sviluppo per sopravvivere a questa crisi intendiamo, anche che occorre abbandonare l’esercizio sbagliato - da tutti praticato negli ultimi vent’anni- di scaricare la competitività del paese svalutando il lavoro: le caratteristiche di una crisi – della domanda e dell’offerta- come quella che abbiamo di fronte e l’incertezza relativa non lo consentono.