Molti dati oggi, anche tra loro apparentemente diversi, delineano l’andamento dell’economia dopo il lockdown. Quello maggiormente negativo è della Commissione europea che, nelle sue stime relative alle previsioni del Pil 2020 peggiora il dato relativo all’Italia (-11,2% di Pil) più basso dell’1,7% di quello precedente, mentre non migliora quello sul 2021 che dal +6,5% passa al +6,1%. I problemi riguardano in modo simile molti altri paesi (Spagna -11,2%; Francia -10,6%), dimostrando la pericolosità e pervasività della recessione causata dalla pandemia e confermando quanto sia essenziale il varo con effetti immediati del Recovery fund per i paesi più colpiti dal virus come l’Italia, ma per tutta l’Europa che comunque si prevede chiuda il 2020 con un -8,7% di Pil.

Queste pessime previsioni vanno confrontate con alcuni dei dati, sempre oggi proposti dall’Istat, nella nota mensile sull’andamento dell’economia e sul commercio al dettaglio. Il quadro internazionale resta complicato, particolarmente in alcuni settori (trasporti, turismo, ristorazione, ecc.) e nei primi segnali di ripresa dell’attività produttiva si possono leggere atteggiamenti difensivi di vari paesi verso le importazioni di prodotti esteri. Non ancora la riproposizione di dazi o vere e proprie forme di protezionismo ma da tenere sotto attenta osservazione. Migliora il clima di fiducia a livello europeo così come in Italia, ma rimane lontano dai dati pur non brillanti del 2019 soprattutto per le imprese, mentre per le famiglie la maggior preoccupazione, oltre a quella sanitaria, sta diventando la disoccupazione.

Il focus Istat sulle imprese allegato alla Nota economica conferma questa realtà. Il 38,8% delle imprese italiane (per circa 3,6 milioni di addetti) ha denunciato rischi di sopravvivenza nel corso dell’anno. Ovviamente, questo pericolo è esponenzialmente più alto fra le piccolissime aziende e nei settori ancora oggi più colpiti dalle conseguenze della pandemia. Sono rischi ovviamente collegati ad una caduta del fatturato e alla contrazione della domanda, ma la crisi evidenzia ed amplifica un problema storico dell’imprenditoria italiana: la mancanza di capitalizzazione con problemi di liquidità e accesso al credito che riguardano queste imprese e che occorre tenere in debito conto rispetto alle misure in atto e al ruolo dello stato e dei finanziamenti pubblici.

Una quota così ampia, se non si riduce drasticamente (non solo con risorse, ma anche con incentivi alle concentrazioni, infrastrutturazione e servizi comuni almeno a livello distrettuale) potrebbe ridurre notevolmente la nostra base produttiva, rallentando ancora di più le prospettive di ripresa dal 2021 in poi. Va perciò indotta una strategia di ripresa del sistema produttivo basata su investimenti mirati, qualità nuova della produzione, aumento dei consumi e dell’occupazione; preoccupa invece che l’Istat indichi che più di un terzo delle imprese manchi di una strategia di reazione.

L’ultimo dato oggi disponibile è quello del commercio al dettaglio del mese di maggio. C’è un aumento consistente rispetto ad aprile, in parte previsto dopo il periodo di blocco totale, concentrato sui beni non alimentari, ma anche in questo caso la strada per il recupero rispetto alla situazione precedente è ancora lunga.

Sono segnali che vanno letti nel loro insieme e che vanno tradotti in una strategia di ripresa che veda partecipi in una vera e propria cabina di regia rappresentata da un’agenzia dello sviluppo che coinvolga anche le parti sociali. Le possibilità future sono adesso strettamente legate alle scelte di prospettiva che saranno fatte. I dati dimostrano che la propensione al consumo è ancora bassa mentre è in ripresa anche come forma difensiva quella verso il risparmio, condizioni legate ad attesa sull’andamento della situazione e a scarsa fiducia verso il futuro che solo interventi straordinari nella quantità e nella qualità e percepiti come immediatamente realizzabili a sostengo dell’economia e dell’occupazione possono cambiare.

Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio