Il ragionamento sviluppato nel documento firmato da Archibugi, Pennacchi e Reviglio, pubblicato da Collettiva, coglie nel segno: da un lato, la crisi economica innescata dalla pandemia ha messo definitivamente allo scoperto l’inadeguatezza di un modello economico superliberista, caratterizzato da globalizzazione sregolata, finanziarizzazione, annullamento degli spazi di intervento pubblico, compressione del welfare e degli strumenti di protezione dell’occupazione; dall’altro, per provare a costruire un nuovo modello di sviluppo al cui centro vengano posti i diritti dei lavoratori, una migliore distribuzione del reddito, la sostenibilità ambientale, è indispensabile un nuovo protagonismo dello Stato; occorre infatti varare una nuova stagione di investimenti pubblici che serva a indirizzare la crescita e a fare anche in modo che il flusso di liquidità immesso nell’economia dalle banche centrali si incanali verso l’economia reale e non solo verso i mercati finanziari.

Per parte mia proverei a problematicizzare quello schema logico, che torna nella gran parte del dibattito opportunamente ospitato da Collettiva, con due spunti, uno attinente alla quantità di risorse, l’altro alla modalità dell’intervento pubblico. Sul primo piano, temo che il Paese sia ancora di fronte a un problema di grave insufficienza di risorse finanziarie. Come ho provato a sottolineare in numerose circostanze, infatti, nel periodo tra il 2008 e il 2019 il Paese ha sperimentato con continuità, a dispetto dei cambiamenti nelle maggioranze al governo, drastiche politiche di austerità, realizzando tutti gli anni – con la sola eccezione del 2009 – politiche di avanzo primario (ovvero tenendo sempre la spesa pubblica di scopo, destinata a realizzare beni e servizi, a un livello inferiore al prelievo fiscale). Ciò ha determinato una drastica contrazione della spesa pubblica e soprattutto della spesa in conto capitale dello Stato, provocando una sostanziale stagnazione e la progressiva riduzione del peso italiano nel commercio internazionale. Col risultato che a fine 2019 il pil italiano era ancora lontano dal valore del 2008. Stando ai dati della Commissione Europea, in tutto il periodo 2008-2019 la quota del pil dedicata dal Paese agli investimenti pubblici è stata costantemente inferiore rispetto alla media europea di 6 o 7 decimi di punto, con il risultato di cumulare un sottoinvestimento rispetto al resto d’Europa molto superiore ai cento miliardi di euro.

Non a caso, il Paese è stato il fanalino di coda della crescita europea e a fine 2019 marciava convintamente verso la recessione. Con queste premesse, la drammatica sopraggiunta vicenda dell’epidemia ha posto il Paese in una condizione di estrema difficoltà. A giudizio di tutti gli enti di ricerca, l’Italia subirà un crollo produttivo ben maggiore rispetto all’eurozona e all’insieme dei Paesi sviluppati, con un tonfo che secondo le ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale potrebbe sfiorare il 13%. Il Il ricorso, certamente opportuno, all’extradeficit (pari a 75 miliardi di euro con i decreti varati tra marzo e maggio) per finanziare le politiche emergenziali, ha determinato – insieme alla contrazione violenta del pil e delle entrate fiscali – un’impennata del rapporto tra debito e pil, che per fine 2020 balzerà forse al di sopra del 160%. Una condizione questa che, come ho argomentato ad aprile scorso su economiaepolitica.it, pone per il futuro un serio problema di sostenibilità del debito. Al tempo stesso, e per le ragioni appena esposte, non credo affatto che le risorse del Recovery Fund siano adeguate.

Come è noto, infatti, stando alla proposta della Commissione Europea, il Paese dovrebbe ricevere 91 miliardi di crediti, per i quali beneficeremo solo di un ridotto risparmio di interessi rispetto al ricorso al mercato, e 82 miliardi impropriamente definiti “a fondo perduto” (il Paese dovrà infatti contribuire a questi finanziamenti con circa 65 miliardi). A ben vedere, l’importo delle risorse è limitato perché va spalmato su un orizzonte di 8 anni ed anzi è anche molto tardivo, se è vero che – come ha mostrato l’istituto Bruegel – solo il 25% di quelle risorse arriverà tra il 2020 e il 2022. Per queste ragioni, un tema rilevante è anche quello della capacità di tenere il nostro risparmio nel Paese, investendolo per la crescita. In questo senso va l’articolata proposta, avanzata dalla Fiom-Cgil sin dalla segreteria di Maurizio Landini, per spingere i fondi pensione italiani a investire nel Paese.

L’altro aspetto su cui qui propongo un approfondimento è la questione della modalità dell’intervento pubblico. Come dicevo inizialmente, è certamente vero che per impostare un nuovo modello di sviluppo occorre tornare a un protagonismo dello Stato e a una nuova stagione di investimenti pubblici. Credo sia importante sottolineare, a riguardo, la necessità di una forte e incisiva politica industriale. Gli studi di cui disponiamo, e qui mi riferisco tra gli altri a un lavoro promosso dalla Scuola di Governo del Territorio, mostrano che la caduta della competitività italiana a cui abbiamo assistito in questi anni è dipesa sia da una contrazione di competitività dell’apparato produttivo sia da una riduzione di competitività del contesto territoriale.

Sul primo versante, gli studi mostrano che le imprese italiane sono mediamente troppo piccole, investono pochissimo in nuove tecnologie e in formazione del personale, privilegiano spesso il lavoro precario, hanno modelli di governance frequentemente inadeguati. Sul secondo versante, le analisi mettono in evidenza che il sistema territoriale è spesso molto fragile, soprattutto nel Mezzogiorno, per l’inadeguatezza delle reti di trasporto, la lentezza della giustizia, la diffusione di criminalità, le difficoltà nell’accesso al credito bancario, l’inadeguatezza dei servizi pubblici locali. Gli investimenti pubblici e le politiche industriali di cui tanto necessita il Paese, dovrebbero essere in primo luogo rivolti alla soluzione di queste strozzature allo sviluppo. In altri termini, essi dovrebbero essere rivolti a far compiere un salto dimensionale-tecnologico-organizzativo al nostro sistema produttivo e contemporaneamente a garantire una adeguata infrastrutturazione (materiale e immateriale) del territorio. Occorre dunque un disegno di politica industriale, che spinga alla crescita della competitività e che contemporaneamente orienti il sistema economico al soddisfacimento di quei bisogni insoddisfatti di cui abbiamo così tanta esperienza, moltiplicando le infrastrutture sociali, puntando su una crescita trainata dai sistemi di welfare, ponendo al primo posto le esigenze della sostenibilità ambientale e della riqualificazione del territorio.

È decisivo affrontare la sfida dello sviluppo. Senza livelli di crescita sostenuta nei prossimi anni l’Italia rischierà di rimanere schiacciata sotto il macigno del debito e ciò potrebbe rimanderebbe seriamente al quesito sulla tenuta dell’eurozona. Senza che la crescita muti qualità, trasformandosi in sviluppo, rischia poi di rimanere aperta la porta a una società ancora più diseguale e distruttiva degli equilibri ambientali. È una partita terribilmente complessa, anche perché negli anni dell’austerità la capacità di azione della pubblica amministrazione italiana è stata annichilita. I blocchi del turnover ci hanno lasciato una pubblica amministrazione stanca e anziana, complessivamente inadeguata. Nei Comuni e nelle Regioni, soprattutto nel Mezzogiorno, non ci sono ingegneri ed economisti per gestire i progetti di sviluppo. Certamente sarebbe utile l’Agenzia proposta dalla CGIL, e invece di fare “stati generali” o supercommissioni, occorrerebbe cominciare con l’inserire nei gangli vitali del nostro Stato giovani capaci, volenterosi, in grado di battersi per un futuro migliore.

Riccardo Realfonzo è un economista italiano, direttore di economiaepolitica.it